Con il riconoscimento della D.O.P. al Silter, confermato pochi giorni fa, sono diventati 51 i formaggi italiani tutelati dal marchio che ne garantisce origine e qualità. La UE, il latte e l’Italia. Mettete insieme questi tre ingredienti, agitate per bene e attendete. Il risultato è un piatto dal sapore deciso e con un retrogusto lievemente schizofrenico. Ricapitoliamo: negli ultimi mesi il suddetto terzetto ha dato vita ad una lotta titanica, che ha visto contrapporsi burocrati zelanti e allevatori agguerriti. Nel mezzo, mucche inconsapevoli più o meno quanto gli stessi consumatori.
Ricordate la lettera che la Commissione Europea ha inviato a fine maggio al governo italiano nella quale chiede l’abolizione della norma – risalente al 1974 – che vieta la commercializzazione e l’utilizzo di latte in polvere per la produzione di formaggi, yogurt e mozzarelle?
Da più parti è stata interpretata come un’imposizione a produrre formaggi con il latte in polvere, scatenando un contrasto acceso tra Coldiretti da una parte e Assolatte dall’altra, mostrando secondo alcuni il volto peggiore dell’Europa.
Ora, posto che la norma non “impone”, ma “prevede la possibilità” di utilizzo del latte in polvere, e posto che i formaggi a marchio D.O.P., che seguono un preciso disciplinare di produzione, sono esclusi da questo provvedimento, ecco che un lieto evento arriva a trasformare l’iniqua UE in alleata leale. Il riconoscimento della D.O.P. al Silter, appunto.
Spostiamoci senza esitazione, quindi, in Val Camonica e nel Sebino Bresciano – questa l’area di produzione – per saperne di più.
Il nome innanzitutto: Silter – di derivazione celtica – è, nel dialetto della zona, il locale attiguo alla malga dove vengono stagionate e conservate le forme di formaggio, la “casera”, insomma. Se volete fare sfoggio di competenze storiche mentre portate a tavola, in modo disinvolto, dei pezzetti di Silter ordinatamente disposti, vi basti sapere che i primi documenti che lo citano risalgono al 1600.
Se poi volete proprio strafare, indossate un papillon e citate il “monte de el Gulem”, oggi Monte Guglielmo, luogo di elezione nella produzione del formaggio: i vostri ospiti prima vi guarderanno in modo attonito poi, incuriositi, vi chiederanno notizie sul latte.
Eccole: il disciplinare prevede l’utilizzo di quello delle vacche di razza Bruno-Alpina (una razza dalla storia affascinante e intricata, per la quale bisogna spostarsi in Svizzera e Usa, ma della quale parleremo un’altra volta, altrimenti rischiamo di superare i tempi di stagionatura del formaggio).
Il procedimento vuole che al latte, rigorosamente crudo, parzialmente scremato per affioramento, venga addizionato caglio animale: una volta ottenuta la coagulazione, si procede alla rottura della cagliata, fino ad ottenere grani di pasta grandi quanto un grano di riso o un chicco di mais.
La massa viene quindi riscaldata ad una temperatura compresa tra 44° e 52°: una volta cotta, è estratta dal siero e lasciata a spurgare per 12-24 ore in fascera. Il Silter viene quindi salato (a secco o in salamoia) e fatto stagionare da un minimo di 100 giorni a oltre l’anno (la crosta può essere trattata con olio di lino).
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La forma, di peso variabile tra i 6 e i 14 kg, ha colore giallo paglierino che diventa bruno in caso di stagionatura più lunga. La pasta è compatta e con piccola occhiatura.
Confidando che i vostri ospiti non si siano addormentati durante la spiegazione tecnica, risvegliateli con musica celtica e procedete all’assaggio: delicato e dolce nelle forme più giovani, il Silter diventa più intenso con l’invecchiamento, regalando profumi di foraggio.
Oltre che come “fine pasto”, si comporta molto bene in fondute, come ripieno di torte salate e condimento per gli gnocchi. Alla fine, non avrete imparato la lingua dei Celti ma avrete un buon motivo per una gita in Val Camonica.
[Crediti | Link: Agronotizie, Dissapore. Immagini: Il font, Formggio, Made in Brescia]