Hollande è più simpatico e caciarone di Monti? “Ça se discute…” verrebbe da dire. È quello che ha risposto il neopremier francese al collega Rajoy, quando questi ha malauguratamente sostenuto che Roma – e non Parigi – è la città più bella del mondo.
Di sicuro, come ogni francese degno di questo nome, Hollande è tutto preso dalla grandeur parigina da non vedere la capoccia della nostra capitale. Ma, almeno per dovere di ospitalità visto che lo scambio di battute avveniva proprio a Roma, il presidente francese poteva forse mettere un momento da parte la nota boria transalpina.
Abbiamo elaborato l’affronto con calma, i fatti appartengono al fine-settimana scorso, però ce lo siamo chiesti: Parigi vs. Roma 1 a 0, dunque? Fomentati dal clima agonistico degli Europei, agonistico per tutto il torneo tranne la finale, ci siamo messi al lavoro. Non staremo a dare punti al Colosseo o alla Tour Eiffel, alla fontana del Tritone o all’Arc de Triomphe, ai giardini di Luxembourg o a quelli di villa Borghese. Ma possiamo sottrarci dal sindacare sul sindacabile, ovvero sulle rispettive prelibatezze gastronomiche delle due capitali?
Attribuire uno scettro sarebbe inutile e mi attirerebbe più grattacapi che plauso, ma non si può resistere a cavalcare l’onda della polemica e a insinuare il sospetto che il buon Hollande avesse faticato a digerire il suo coq au vin della sera prima.
La cucina parigina rispecchia un po’ il carattere di chi la prepara e se ne ciba: è orgogliosa e refrattaria a essere compresa al primo boccone. Va spogliata di qualche orpello (di troppo?) per capire di che pasta è fatta.
Perché se la si denuda del suo altezzoso corredo di salse Mornay, riduzioni al vino, Béchamel e beurre noisette, ciò che resta è una cucina molto più low-profile di quanto si creda: sono robusti piatti di carne di manzo e maiale, interiora come fegato o sanguinaccio ma fatte alla buona, formaggi sodi dai sapori rustici, semplici crespelle al grano saraceno, e patate più adatte a farci un pot-au-feu che un laborioso Hachis Parmentier. Una cucina insomma che sotto lo sfarzo postmediceo delle pietanze del potere, cela radici campestri, sanguigne, normanne.
E quale cucina è più verace di quella romana? Il quinto quarto abbonda nei piatti della tradizione, fra coratelle, pajata e rognoni. Ma mi piace considerare regine indiscusse della tavola le altrove snobbate misticanze e verdure rudi come la cicoria, le puntarelle e lo spinoso carciofo, che diventa arrendevole solo se incontra l’olio, per esser fatto alla Giudia.
Sui dolci la supremazia va in casa di Francia, non c’è verso. Hai voglia a maritozzi e grattachecche, l’unica chance di vincere un piccolo trofeo nel settore ce la lascia il gelato. Gelaterie vecchie e nuove della capitale reggono bene il confronto con lambiccati ma deliziosi dolci al rabarbaro, sfoglie burrose e creme chantilly, ma certo, si torna al punto di partenza: le dispense e i metodi fanno da specchio alla levatura dei cucinieri.
Così, a Parigi il dessert diventa un ghiribizzo estetico uno status symbol (leggi: macarons). A Roma ci si accontenta invece di un dolce più spiccio e nazionalpopolare, facile da godere e senza pretese, come un cono crema e cioccolato.
Provasse a mangiarsene uno anche lo schifiltoso Hollande: un rito propiziatorio per le sorti dell’Eurozona – e un ameno digestivo dopo quel coq au vin diventato acetoso.
P.S. Sui ristoranti la partita è persa. Tra neobistrot e neotrattorie ce la giochiamo. Non entro nel merito della pizza, a Roma da qualche anno filologicamente impeccabile (poche sovrastrutture mentali, leggerezza e gusto), perché non ho notizia aggiornate a proposito dalla Ville Lumiére, magari voi…
[Crediti | Link: Corriere.it, immagine: Bon Appetit]