Prima i ragazzi volevano diventare calciatori, oggi aspirano tutti a essere chef. Chiamiamolo effetto Masterchef. Ma l’enfasi televisiva, a parte creare una congerie di cuochi sottoccupati, mette in ombra il mestiere di camerieri, sommelier e maître nei ristoranti stellati. Eppure uno chef può fare miracoli o rivelarsi un bluff, ma è chi ci serve a esaltarne o svilirne il talento.
“Un grande servizio vale il 52 percento dell’esperienza di un cliente” tuonava giorni fa Massimo Bottura. Il numero uno degli chef italiani ha ricordato come a Londra, Tokyo o New York, nei locali dove il servizio è il migliore del mondo, il personale di sala italiano sia il più richiesto e retribuito. Una specialità nazionale che risale al Novecento. Basta ricordare che ben 30 dei 37 italiani imbarcati sul Titanic erano camerieri, ingaggiati dal gestore del ristorante à la carte, italiano pure quello.
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Il maître è una specie di antropologo, abituato a capire al volo chi sta per servire – osservandone abbigliamento, accenti, intenzioni. Deve avere memoria e preparazione – addirittura cultura, quantomeno in tema di cibo. Deve cavarsela con le lingue e sapere come si catturano confidenza e fiducia del cliente.
Spesso torniamo in un ristorante perché ci sentiamo come a casa, e questo avviene soprattutto grazie all’intesa che si crea con chi serve in tavola. Come mai allora il ruolo di maître, sommelier e camerieri è tanto sottovalutato?
Ne abbiamo parlato con tre persone che della sala hanno fatto un’arte stellata: Giuseppe Palmieri dell’Osteria Francescana di Modena (cui va la nota di merito di avermi risposto da New York), Alessandro Pipero del ristorante Pipero al Rex di Roma e Luca Vissani di Casa Vissani.
Conta più la sala o la cucina?
Pipero mi riserva una asserzione, sembra voler mettere le cose in chiaro per evitare che si inneschi il gioco delle due tifoserie: “I cuochi e il personale di sala fanno lo stesso mestiere, che è la ristorazione, giocano solo in ruoli diversi come succede in una squadra di calcio”.
Ok ma non mi basta, è vero, come diceva Chef Guérard (e Massimo Bottura), che la sala conta al 52%? Me lo spiega Vissani dicendomi che no, quello che chiama i clienti è la cucina, però una volta varcata la soglia del ristorante sala e cucina se la giocano alla pari. Pipero invece è più netto: “Se in un ristorante mangi male ma in sala ti sei trovato bene torni, viceversa no.”
Come ci si sente a lavorare in sala?
Palmieri mi dice una cosa che mi piace: “Un vero cameriere dopo 10 giorni di ferie comincia a provare un certo desiderio inspiegabile e perverso di tornare a muoversi tra i tavoli”. Una cosa mi è chiara, dalle parole di Palmieri e da quelle di Vissani si percepisce l’amore senza riserve.
Sempre Palmieri definisce il suo lavoro: “Un lavoro che racconta la passione di una vita”, e non posso fare a meno di invidiarlo.
Come la mettiamo con gli stipendi bassi?
Vissani lo ammette: tra uno chef de rang (brigata di sala) e un capopartita (brigata di cucina), due ruoli paragonabili per responsabilità, il professionista in cucina guadagna di più di quello in sala.
Però poi mi dice una cosa bellissima, e cioè che un ragazzo dovrebbe scegliere di lavorare in sala perché è un mestiere simile a quello del ricercatore: si diventa ricchi dopo vent’anni. (Tutta la generazione dei trentenni ci spera ardentemente che prima o poi si cominci a guadagnare).
Un’altra bella lezione di stile me la dà Palmieri, dicendo: “Per imparare un mestiere bisogna stare di fianco ai migliori e, se necessario, accontentarsi di un compenso minimo a fronte di una lezione professionale e di vita che non ha prezzo.” Insomma, un’altra qualità della patata sembra essere quella di tenere duro.
Però è anche vero che la qualità si paga, almeno il giusto, e che tagliare i costi sul personale di sala porta al fallimento, o almeno incide pesantemente sui bilanci del ristorante: è una delle grandi battaglie del personale di sala.
Sempre Vissani mi parla dell’associazione Noi di sala, che vuole fare in modo che alla sala non succeda quello che è successo alla cucina: di quello che succede al ristorante, il film Ratatuille dà un’idea più veritiera di qualunque reality.
Ma allora gli italiani sono i migliori?
Pare di no, tutti sono concordi che di bravi ce ne siano dappertutto. Palmieri ci mette il carico da novanta: “Sono convinto più che mai che se continueremo a sentirci migliori degli altri a prescindere, noi italiani continueremo a retrocedere nella classifica reale dei migliori al mondo”. (E adesso chi glielo dice a Massimo Bottura?)
Insomma, che caratteristiche deve avere un bravo maître?
Vissani, il passionale, mi dice che uno bravo: “Fa saltare il cliente sulla sedia”, per l’emozione ovviamente. E aggiunge che si hanno 5 minuti per capire il cliente, il tempo che passa dalla consegna del cappotto alla prima comanda. Dentro di me penso che l’estate, senza cappotti, deve essere un momento difficile per chi lavora in sala.
La competenza psicologica è indubbiamente parte del curriculum, anzi la qualità principale secondo Pipero, ma Vissani e Palmieri mi fanno notare anche la componente imprenditoriale della sala.
Il maître della Francescana mi spiega anche cosa vuol dire fare il maître, cioè il capo: secondo lui un capo deve avere quella qualità impagabile di saper condividere la propria cultura. Secondo me si tratta di una qualità innata, ma lui mi spiega con pazienza che bisogna fare squadra coi collaboratori, saper riprendere bonariamente soprattutto i giovani, e spostare i limiti sempre più in là.
Ultima caratteristica della patata è avere le palle: Vissani mi racconta di qualche cliente che trascorre la cena a provocarlo sulle porzioni, i prezzi, ecc ecc.
Mi dice che avrebbe voluto tiragli un pugno (attività recentemente sdoganata da papa Francesco) ma che alla fine gli ha detto: “Questa sera si è divertito ma stia sicuro che non succederà più”.
Mi dice che queste cose succedono perché qualcuno non sa cosa aspettarsi quando va in uno stellato, e mi racconta dell’iniziativa The open space, una serie di sconti in vigore dal 19 gennaio al 15 marzo, con cui sperano, tra le altre cose, di avvicinare “il grande pubblico”; chissà se li aiuterà a far quadrare i conti, o a desiderare meno di fare a cazzotti.
[foto crediti: Facebook, Scatti di Gusto, Pasquale Pace]