Avviso: questo post parla della pizza di Princi ma anche un po’ di me, e quindi ho già messo in coda di spam nei commenti “autoriferito” e anche “ombelicale”, dovrete essere creativi con i sinonimi. Lo scrivo comunque perché spero possa essere interessante per qualcuno, più per metodo che per merito, visto che vorrebbe far luce su alcune dinamiche del web e del mondo del giornalismo gastronomico.
I fatti: un mese fa riapre, dopo lunga ristrutturazione, la panetteria gourmet Princi di piazza 25 aprile a Milano. La grande novità è un’area ristorante dedicata alla pizza di Franco Pepe, pizzaiolo culto degli appassionati del lievitato d’Italia.
Dissapore partecipa all’anteprima e gode assai.
Il critico del Corriere Milano Valerio Visintin va in visita e stronca. Se due indizi fanno una prova (si scherza, Valerio! Non ti arrabbiare, oggi mi sento già abbastanza impopolare) io mi frego le avide cheline e mi precipito da Princi, pronta a sbafarmi una pizza eccellente.
Il locale è un cubone di vetro elegante e bello, e la scelta di creare un angolo ristorante più intimo è piuttosto felice. Sono di ottimo umore. Ordino una birra, in menu a 4€, e in breve giunge al mio tavolo questo (scusate la bassa qualità della foto).
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20 cl è difficilmente quanto ci si aspetta di ottenere ordinando una generica birra: una media è esattamente il doppio. Soprattutto, la birra è nel boccale da Moscow Mule, in omaggio alla dilagante moda dei bar clandestini o speakeasy, per cui di questi tempi a Milano tutti quelli che hanno bevuto fino a ieri l’Americano ora esigono il French75 anche nel bar sotto casa che serve le Dixie dell’altroieri.
Insomma sto già brontolando quando arriva la pizza: ho scelto Sole nel piatto (13€), con mozzarella di bufala D.O.P., olive, basilico, origano del Matese, acciughe di Cetara, piennolo del Vesuvio (Casa Barone), olio extravergine varietà caiazzana.
In generale, questa lunghissima lista di ingredienti mi porterebbe a commentare qualcosa come “si fa prima a mangiarla che a leggere la descrizione” ma in questo caso non è così: l’impasto della pizza è greve, poco cotto all’interno, un po’ gommoso, e dopo un paio di fette mi trovo già a cincischiare con il cibo nel mio piatto, delusa.
Dopo la pizza ordino un dolce: la cameriera mi invita a scegliere nella vetrina dell’area panetteria e pasticceria. Opto per una tortina che sembra una sorta di Sacher ai lamponi. Torno al tavolo, dove vengono a prendere il mio ordine. In vetrina non ci sono nomi, quindi devo descrivere la torta: spiego che sembra un po’ una Sacher, è tonda, ha una glassa rosso scuro, in cima c’è un lampone, su tutto il bordo ci sono codette di cioccolato.
La descrizione è dettagliata al punto che, se la torta di Princi avesse ucciso qualcuno in una rapina e io fossi un testimone, il tizio che disegna i ritratti dei sospettati in Law&Order non avrebbe nessun problema a disegnarla.
La cameriera annuisce, e torna con la fetta, rettangolare, di un semifreddo giallo e marrone. In cima c’è un lampone. Io, con un sorriso, le dico: “Ah, accidenti, non intendevo questa. Vengo con lei al bancone e gliela mostro?” Lei, seccata: “Ma mi aveva detto coi lamponi.” Io: “…”
Insomma la birra è velleitaria e costosa, la pizza dimenticabile, il servizio pasticciato, che sarebbe il meno, non fosse pure indisponente.
Torno a casa dopo aver speso quasi 30€ a testa e non sono felice.
Ma del resto, il locale ha appena aperto, Franco Pepe è un artigiano straordinario (persino la pizza che ho mangiato a Identità Golose, fatta da lui in un forno di fortuna, era molto superiore a quella mangiata da Princi) e io ritengo che la mia produzione giornalistica non possa essere composta in gran parte da lamenti circa la scarsità di alcolici.
Quindi decido di non scriverne per Dissapore, riservandomi di tornarci. Posto solo la foto del boccale su Facebook, cioè in un luogo aperto al pubblico, sì, ma non pubblico. Nei commenti, vengo interpellata sulla pizza, e rispondo che quella che ho mangiato mi ha deluso.
Vado a dormire il sonno dei giusti, seppur appesantiti. La mattina dopo trovo the pizza wars, peraltro in corso con i toni fintamente melliflui e passivo-aggressivi che, devo ammettere, un po’ mi addolciscono perché mi ricordano tanto la mia mamma (si scherza, mamma! Non ti arrabbiare, che ormai solo tu mi vuoi bene).
Così il blog di Luciano Pignataro
Pur non nominata, si parla di me (che peraltro propriamente a digiuno di pizza non sono). Il riferimento a Gino Sorbillo, pizzaiolo in viale dei Tribunali a Napoli, è alla riunione di redazione di Dissapore, tenuta lì in un’occasione. Latte sgorga copioso dalle mie ginocchia quando leggo la chiusa: non sarei stata invitata all’apertura, quindi ne avrei scritto male, in spregio al lavoro quotidiano di tutti – non ultimo, il mio.
Su altre bacheche, il tono è più greve: una giornalista si chiede “come sia arrivata una vegetariana a Repubblica” (sempre io: Un marziano a Roma, restrizioni alimentari edition?), dando il via a un allegro sottobosco di sottintesi, con altri che rispondono: “Dovresti saperlo, nella vita ci vuole culo. Oh, inteso come fortuna!”.
In una versione evoluta del classico “ti tirano le pietre”:
— se vieni invitato e ne scrivi bene, è perché sei prezzolato
— se paghi il conto e scrivi bene, è perché vuoi accreditarti con lo chef per la volta successiva
— se vieni invitato e scrivi male, dev’essere perché ti hanno solo invitato, senza darti dei soldi
— se paghi il conto e scrivi male, è perché non ti hanno offerto la cena
— se scrivi su di una testata prestigiosa, chissà in che modo spregiudicato ti sei mossa.
E un po’, in effetti, passa l’appetito.