Conosco un ragazzo che ama la pizza. Lo conosco più virtualmente che fisicamente, e seguo le sue avventure da social network con una particolare attenzione, perché la sua non è una passione della domenica, ma una di quelle dalle viscere.
Qualcuno potrebbe insinuare che il mio sia un giudizio frammentario e semplicistico, ma io osservo con voyeuristico compiacimento i suoi post, ingrandisco le foto, le studio e le interpreto ormai da qualche anno. Non crediate che quest’uomo sia un classico noioso fissato monotematico, anzi so per certo che ha diverse altre passioni (tra cui il cinema, guarda il caso).
Resta il fatto che la pizza, la sua pizza è una declinazione potenzialmente infinita del tema amoroso cavalleresco, perché lui la pizza la ama, ne insegue l’essenza, ne coltiva l’anima.
Ma cosa c’entra il mio amico di Facebook con Dissapore?
È stato lui, lui e le sue intuizioni gastro-filosofiche a illuminare la mia riflessione mattutina sul cibo che ha detto quasi tutto e, avendo fame di cose nuove, ora si fagocita da solo.
Ecco la foto da cui nasce la riflessione: la pizza alla pizza.
Che il cibo vada ben oltre la mera sopravvivenza non è certo una novità. Il fatto che, a tratti, si stia consumando nel tentativo edonistico di auto citarsi è cosa più recente.
No, non preoccupatevi, non è una sessione estiva del corso di cinematografia sperimentale, ma un’analisi semiseria sul cibo che parla di sé. Aveva iniziato qualche grande chef riempiendo i propri ravioli con il sugo di carbonara, poi siamo passati all’hamburger di ramen, e oggi un amico nella sua gallery di Facebook mi propone la metapizza godardiana.
Il tutto mi spinge a riflettere sul blob dell’autocitazionismo in cucina.
Per una volta non si tratta dello chef di turno che si fa bello con i propri cavalli di battaglia, sponsorizzandoli fino quasi a crearne visioni mitologiche, ma sono i cavalli di battaglia che si sono nel tempo fagocitati lo chef. Cibo ripieno di altro cibo, una scatola cinese delle ricette che sembra fatta per chi è alla ricerca dell’anima intrinseca dell’alimento.
Ci sono poi dei casi di citazionismo fuorviante, tipo dei piatti dolci che fanno il verso a quelli salati (chiedo venia ma solo a ferragosto ho scoperto l’esistenza delle melanzane al cioccolato, una sorta di parmigiana dolce tipica di alcune zone della Campania) e viceversa (mai provato lo strudel salato?)
Infine c’è il citazionismo illustre, come quello di Tarantino (che poi ti tocca rivedere i film 4 volte per poter cogliere anche solo la metà dei richiami ad altri film). Pensate alla creazione di una ricetta come se foste il regista di “Kill Bill”, scegliete un mito e tappezzate il vostro piatto di citazioni a tre stelle: in migliaia hanno rincorso facilonamente Marchesi mettendo una foglia d’oro sul proprio risotto, altri hanno intasato il web con consigli su come rifare a casa l’uovo marinato di Cracco.
Io, lo ammetto con candore, non sono una purista dell’autocitazione alla Godard, né prendo troppo spunto dai grandi alla Tarantino. Piuttosto mi avvicino più al linguaggio televisivo di Blob.
Venite a cena da me? Faccio un notevole BBQ ispirato alla serie “Dallas” e, se non vi fidate, vi porto a mangiare da mia suocera: lì tutto ricorda “Il pranzo di Babette”, ma senza tartaruga.