In vacanza a Nizza, prenoto per cena nel ristorantino gestito da due ragazzi giovani (la guida anticonvenzionale Le Fooding, in genere affidabile, lo definisce “antidepressivo”):
“Ci sarebbe un tavolo per due stasera?”
“Eh, eccome se c’è”.
(Con il senno di poi: la risposta doveva suscitarmi perplessità.)
Tra le entrée, io e la mia commensale optiamo entrambe per la tartare di tonno. Ordiniamo una bottiglia di vino e ci ripetiamo allegre “com’è carino qua”.
La tartare è presto in tavola, l’impiattamento ha ambizioni autoriali e il ciuffo di insalata è disposto con una voluta studiata. Ne assaggiamo un boccone, ci guardiamo.
“Il tonno è andato a male.”
“Decisamente.”
“Ha l’odore del Camembert che abbiamo mangiato a pranzo, ma in questo caso non credo sia appropriato.”
“Bene, diciamoglielo! Sono cose che capitano”.
Non senza imbarazzo, approcciamo il ragazzo in sala e segnaliamo che, peut–être, c’è un problema con il tonno. A questo punto comincio, per empatia, a sentirmi del tutto mortificata, come se avessi portato del pesce avariato da casa al solo scopo di rendere la sua vita più miserevole.
La tartare ritorna in cucina, lo chef viene a scusarsi. “Il tonno aveva uno strano odore, sembrava vecchio. Ora ne prendo un pezzo nuovo e ve la rifaccio. Mi dispiace”.
Noi ci scusiamo a nostra volta (di cosa? Forse della resistenza ancestrale, inscritta nei nostri geni dal Paleolitico, verso la carne in decomposizione) e, piuttosto a disagio, mandiamo giù risolutamente bicchieri di Sancerre.
“Ce la rifanno” dico io, cogitabonda.
“Se ce la rifanno, di sicuro sono tranquilli sulla qualità dell’altro pezzo di tonno. Altrimenti si sarebbero offerti di prepararci un’altra cosa. Andrà tutto bene. Bevi” conclude, consumata problem-solver, la mia amica.
Arriva un’altra tartare di tonno al tavolo.
“Guardandola così, ti dico che è tagliata meglio” dico, animata da cieco ottimismo.
“Però continua ad avere un pessimo odore” replica la mia amica.
“Non possiamo mandarla indietro di nuovo. Ci odieranno. La mangio.”
“Fossi in te non lo farei. Diciamo loro che forse, semplicemente, l’odore della precedente tartare di tonno influenza la nostra possibilità di gustarci quest’altra, e che assolutamente vogliamo ce la mettano in conto, e che magari consideriamo archiviato questo esperimento della tartare di tonno.”
E così, in uno stato di disagio quasi paralizzante, restituiamo di nuovo la tartare, con larghi sorrisi imbarazzati che cercano vanamente di far passare il messaggio “non sono una brutta persona, lo giuro”. E proprio quando pensiamo che la situazione non possa farsi più ardua, lo chef si impegna in una difesa senza speranza del piatto: le Termopili della tartare di tonno.
“Allora, forse nella prima c’era troppo aceto balsamico…”
“…Ma no, guarda” intervengo “era proprio un problema con la carne…”
“È pesce!” dice lui con aria trionfante, avendo finalmente prova della sua convinzione: siamo delle poverine.
“Intendevo con la carne del pesce” dico io, ormai prostrata.
“Questo è il sapore che ha il tonno!” replica lui, esasperato.
“Certo. Il punto è: il tonno di quanti giorni fa ha questo sapore?” dico con voce flautata, cedendo infine all’atteggiamento passivo-aggressivo che mi porta a domandarmi “quando ho cominciato a somigliare a mia madre?”
Finalmente, chef e tartare ritornano in cucina. Noi, pur vittime, ci sentiamo carnefici. Anche se è la nostra cena a essere stata rovinata, vorremmo solo che i gestori non ci odiassero.
E come l’animale minacciato sceglie l’attacco soltanto quando non può darsi alla fuga, così facciamo noi: ordiniamo – e beviamo – una seconda bottiglia di vino. La speranza è dare un segnale di buona volontà al ristorante e, inoltre, dimenticare.