Popolo consumatore di caffè gli italiani, popolo strano, dove il nome del caffè cambia di chilometro in chilometro, dove il barista medio deve votarsi alla pazienza per sopportare le abitudini dell’italiano che pretende di avere il suo sacro, sacrissimo caffè con il suo bagaglio di abitudini, credenze, rituali.
Il ristretto di un milanese a un romano sembrerà un caffè lungo. La tazzina calda di un bolognese a un napoletano sembrerà temperatura ambiente, fredda quasi.
Vediamo di individuare le grandi famiglie e di aggiungere, strada facendo, altre innumerevoli follie e perversioni.
Le dimensioni contano.
Lungo o corto, l’esegesi della patologia. Insindacabili nello stabilire quanto lungo o corto lo vogliamo. Un ristretto non sarà mai tale, uno lungo sarà passibile di misurazioni infinite. Mai contenti, mai. Ho sentito chiedere “una pillola di caffè”, ho aspettato per vedere cosa fosse. Era il ristretto del ristretto.
Tazzina, tazza grande, di vetro. Abbiate pazienza con me e spiegatemi perché. Faccio un appello a tutti i consumatori di caffè con vista (tazzina di vetro) o caffè che sguazza (tazza grande), impiegate 2 minuti del vostro tempo e ditemi perché è meglio, perché lo preferite così. Non è che il caffè macchiato in tazza grande è un modo per non pagare il cappuccino? E il vetro un vezzo estetico?
Bollenti spiriti.
La tazzina calda, fredda, tiepida. Tazza fredda, caffè caldo. Tazza calda, cappuccino tiepido. Latte caldo, caffè freddo, tazza temperatura ambiente. Macchiato caldo o freddo, macchiato tiepido, schiumato, a pois, in verticale, con solo una goccia di latte di capra vergine. Ma non vi siete mai sbagliati invertendo i parametri della perversione? E quanto ci avete messo a capire che tutta quella combinazione di materia prima e temperatura era la vostra quadratura ideale?
Cappuccio o cappuccino, macchiato, marocchino.
Vorrei mettere sul piatto una domanda a cui mai ho saputo rispondere: che differenza c’è tra un caffelatte e un cappuccino senza schiuma? Mumble mumble. A chi lo vuole molto macchiato, “molto” che unità di misura è? C’è chi indica con l’indice sulla tazza il livello cui deve giungere il caffè. Le invenzioni moderne ci hanno fatto partorire persino il marocchino, piccolo cappuccino nel bicchierino di vetro con una spruzzata di cacao.
Corretto e strano.
L’alito di un bevitore di caffè corretto alla Sambuca lo riconosci da lontano. Il caffè corretto, al rum, grappa, bandy, mistrà, buono quanto basta e perverso, quasi in disuso. Chi lo beve, frugandosi in tasca forse ha una manciata mista di caramelle all’anice, Rossana o d’orzo che gli hanno dato al posto del resto in moneta. I corretti moderni a confronto sono fiction venute male trasmesse dal cane 3000 della tv satellitare: una passata di Nutella in fondo al bicchierino, con panna, nocciola, ginseng, smarties sbriciolate, goccie gocce di aloe.
Poi ci sono gli americani, gli orzi con scorsa d’arancio o limone, decaffeinati con latte di soia, mocaccino, capcioc.
Zuccheri e zuccheriere.
Caffè amaro. A Napoli era, a volte lo è ancora, già zuccherato. Se aggiungi lo zucchero in autonomia e mescoli, che tu sia maledetto per sempre. Rovini la crema, la schiuma e abbassi la temperatura vulcanica. Nel resto d’Italia ho visto chiedere fruttosio, miele di ogni genere, i più svariati dolcificanti e per non farsi mancare nulla, è arrivata anche la stevia.
Freddo, shakerato e la grande rissa.
Ho incontrato tanti pugliesi incazzati che chiedendo un caffè freddo si aspettano come a casa il bicchierino di ghiaccio in cui verseranno con un colpo di polso preciso il caffè caldo da bere in un solo secondo. Fuori dalle loro terre trovano, quindi s’incazzano, caffè raffreddato in frigo quasi sempre zuccherato o caffè mal shakerato e acquoso. Il pugliese scafato lo riconosci: d’estate chiede sempre un caffè espresso e un bicchiere con i cubetti di ghiaccio. Chi fa da sé…
Da Milano a Napoli.
Emigrante milanese entra in un bar a Napoli e ordina un caffè. I gesti minuziosi e preziosi, il vapore, la tazzina bollente, passano 3 minuti circa e la tazzulella è servita. L’emigrante esita, il barista la guarda male, come se spezzasse quell’incantesimo. Signorì, il caffè è pronto, la sollecita. Lei con l’indice e il pollice vicini all’ustione ingurgita il caffè già zuccherato per onorare il rito, intanto si domanda quale sia la distinzione reale tra palato e labbra di un napoletano e quelli di tutto il resto degli italiani. Mai scoperto.
Trieste viaggia da sola.
Il fascino dei caffè triestini, dove in fondo nei tavoli riparati rischi di incontrare ancora Claudio Magris o magari t’immagini passare Kafka o Joyce, il caffè viaggia da solo. Se ci andate, munitevi di dizionario. Niente è come sembra: c’è il Nero, caffè espresso in tazzina; il Nero in B, caffè espresso servito in un bicchiere di vetro; il Capo, caffè espresso macchiato con latte servito in tazzina; il Capo in B, caffè espresso macchiato con latte ma deposto in un bicchiere; il Deca, caffè espresso decaffeinato in tazzina ed il Deca in B, omologo in bicchiere. Il Capo Deca indica l’espresso decaffeinato macchiato in tazzina ed il Capo Deca in B lo stesso ma in bicchiere di vetro. Il Gociado o Gocià indica una goccia di schiuma di latte al centro del caffè. Per ordinare un cappuccino, chiedete un Caffelatte.
Famolo strano.
Arriverà un giorno in cui chiederemo il Black Ivory, i cui chicchi vengono dati in pasto agli elefanti e poi recuperati dalle feci. Ripuliti e tritati danno un caffè dicono delizioso che costa solo 1.100 dollari al chilo. Il caffè indonesiano Kopi Luwak costa 600 euro al chilo, questa volta ad ingerirli è lo zibetto. I succhi gastrici dell’animale tostano i chicchi, che vengono recuperati e lavorati normalmente.
L’Italia è al sesto posto per consumo di caffè, ogni italiano ne beve 5,75 chili l’anno. Fate uno sforzo quindi: al prossimo barista arrabbiato o “diluso”, date una pacca di comprensione sulla spalla e sorridete.
Inoltre, ditemi se ho dimenticato qualche perversione, la vostra per esempio. Come lo ordinate il caffè?