E io che, alla ricerca di cibi etnici, ho provato il Saikebon. Ci sono delle regole non scritte alle quali la pausa pranzo deve sottostare, che tutti conosciamo, che in molti applichiamo anche inconsapevolmente, e che a volte stupidamente o distrattamente dimentichiamo. Una di queste leggi scolpite nel granito é quella per cui se scegli di farti la schiscetta da casa, il cibo dovrebbe almeno superare in qualità quello che il bar sotto l’ufficio ti offre tra le 12 e le 14. Se questa regola non viene rispettata il masochismo autoimposto é pressoché tendente all’infinito, ed é così che é andata ieri per me.
Sono molto fiera di me stessa quando riesco a prepararmi qualcosa la sera prima, lo porziono in contenitori rigorosamente Tupperware di cui mi dotò mia madre dieci anni fa quando andai a vivere da sola, e che ancora oggi fanno il loro.
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Questa logistica gastronomica mi provoca un godimento sottile che tira fuori la massaia in me, quella che nel freezer ha sempre pronto il sugo per uno, per due o per quattro… “Si sa mai” direbbe mia madre.
Tronfia della mia organizzazione anticipata magistrale, mi é accaduto diverse volte che il giorno dopo l’idea di mangiare il cibo preparato la sera prima non mi fosse propriamente congeniale, ma il mio fiero orgoglio non mi ha mai consentito di ignorare il richiamo della mia schiscetta e scendere un salto al bar.
Se quando ero bambina ho bei ricordi di mio padre che impilava a piramide prima il secondo e poi la pasta nella sua schiscetta di metallo, io sono decisamente più contemporanea. E, spinta dall’invidia atavica verso il bento nipponico, tento di dare un tocco esotico al mio pranzo.
In questa onda lunga orientale si colloca il mio schiscetta-esperimento di Saikebon. L’ho visto nelle pubblicità, l’ho incrociato al supermercato, ci siamo studiati interrogativamente da lontano. Poi alla fine, per farla breve, ho capitolato e l’ho comprato. E, non contenta, l’ho portato in ufficio come pranzo, curiosa come una scimmia e orgogliosa della mia scelta.
Ho seguito tutte le istruzioni sul coperchio: ovviamente tutto il sapore (e l’odore) di Saikebon stanno dentro una minuscola bustina da versare nel contenitore insieme all’acqua calda. Poi si aspettano tre minuti. Tre minuti nei quali tampono con della treccia al burro la mia fame, perché dal peso della mia schiscetta di nudolini orientali alle verdure ne vedrò molto pochi.
Avevo scelto i nudolini per farmi bella coi colleghi che si credono sempre più coraggiosi di me negli esperimenti da palato, per curiositá intrinseca e per dimostrare a me stessa che anche il mondo del già pronto può venire in mio aiuto e della mia schiscetta.
Di certo c’é che ho attirato la curiosità dei colleghi, un po’ per sfida e un po’ come zimbello di chi si era portato lo spezzatino e il purè.
Il risultato é stato medio: il sapore é simile agli originali mangiati al ristorante, la consistenza invece é più croccante. Soprattutto i residui di verdura provenienti dalla bustina magica restano letteralmente crudi, e siccome la maggioranza delle verdure é costituita da carotine tagliate piccolissime, scrocchia tutto rumorosamente sotto i denti.
Nell’aria si sente l’aglio. Sì, si sente: i vostri colleghi schizzinosi ve lo faranno notare. Il brodo che resta alla fine non é proprio indimenticabile, e non l’ho finito.
Cosa ho imparato?
1. Che la treccia al burro funge da base, quella base che ti consente di non aver fame dopo 12 minuti dalla fine del Saikebon.
2. Che la prossima volta (perché so che ci cadrò di nuovo) sceglierò quello con il manzo, solo per la curiositá di sentire il profumo della bustina magica.
3. Che i colleghi ti massacreranno perché non hai la bacchette e usi la forchetta, ma la mia amica appena tornata dalla Cina dice che é giusto così.
4. Che forse sarebbe meglio avere dell’acqua bollentissima, non la temperatura tendente al tiepidume del microonde dell’ufficio.
5. Che vincere la sfida delle schiscette ti innesca il virus della competizione senza regole.
[Crediti | Link: Star, Il fatto alimentare]