La prima volta che ho provato un brivido di piacere nel leggere una parola “antica” in cucina, avevo in mano il ricettario di Pellegrino Artusi. La parola era balsamella, un’italianizzazione della sauce bechamel francese. Lì per lì mi aveva fatto ridere, non perché fosse buffa, ma per il senso di straniamento di quella salsa tanto famigliare, la mangiavo tutte le domeniche sulle lasagne, ma che chiamavo normalmente besciamella.
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Nello sfoggio di competenza gastronomica che facciamo ogni giorno, un po’ di archeologia linguistica non può far male. Parole che stanno in un limbo tra il registro aulico e quello regionale, e che, soprattutto, raccontano abitudini ormai abbastanza dimenticate.
Anche per questo ho raccolto alcune parole senza capire bene quali fossero dialetto e quali no. Se il gioco vi piace possiamo anche farne un piccolo glossario, insieme.
Guantiera.
E’ il vassoio con cui in genere si portano i dolci. Un vassoio elegante, di servizio. A quanto pare l’atroce moda dell’impiattamento ha mietuto vittime illustri, anche tra l’argenteria dei grandi casati. Per estensione si dice di tutti i vassoi ricolmi di cibo.
Domenica prossima provate a dire: “Tesoro, vado a comprare una guantiera di paste” e osservate che effetto fa.
Consolo.
E’ una parola che indica un’usanza antica del sud Italia, ora credo quasi completamente perduta.
Si riferisce ad un cibo qualsiasi, che veniva portato in dono nella casa di qualcuno che avesse subito un lutto di recente, dato che era usanza non accendere i fuochi in casa, subito dopo la morte di qualcuno. In Sicilia, in genere, erano le arancine.
Samovar.
Un po’ nord-orientale, ma l’aggeggio, soprattutto se di argento o di porcellana fine, per far bollire l’acqua del tè e per tenere in caldo la teiere, in coordinato, non mancava quasi mai nel corredo di una casa chic.
Ora, si ha l’abitudine di chiamare samovar quei terribili bollitori in acciaio onnipresenti sulle tavole dei convegni.
Cordiale.
Che più che un nome è un atteggiamento. Il liquorino dolce, che dovrebbe tonificare, è cordiale quasi solo se viene offerto.
Credo di esserne attratta per il suo sfacciato lirismo.
Spienza.
Alla faccia del lampredotto. Anche qui un termine dialettale, veneziano. Ma racconta di un uso tipico: si tratta della milza di vitello, ben pulito, bollito a lungo, e tagliato a rondelle, o a striscioline, e marinato nell’olio pepe e aceto.
Si mangiava nei bacari, come stuzzichino, accompagnato da un goccio di vino. La stessa preparazione si fa anche con l’intestino crasso della mucca.
Ma ce ne sono molti altri, per dire, siamo tutti sicuri di sapere cosa sono agliata, salviata, peverata, cotognata, e ancora tortelletti e potagio o infine escalope e biancomangiare?
[foto crediti: Castello di Rivalta, Rose e antichità, Meridional italy cooking, Nike missile, Il pasto nudo]