Amo la birra artigianale. Più di ogni altra cosa. Più della mia ragazza. Più di mia madre. Bene, forse non così tanto, ma di certo più di ogni altra cosa commestibile (nota: ragazza e madre, NON commestibili).
Dai miei primi giorni a Bra, dalla prima Baladin – Nora – bevuta a Piozzo nel 2005, dalle prime trappiste timidamente spigolate nei baretti, non ho smesso per un momento di onorare e celebrare la sacra bevanda; precipitando in un vortice ascendente, sacrificando a Ninkasi un posto privilegiato da promessa sposa.
È il 2012: è Giugno e arrivo a Roma, Capitale dei malti vivi. Il mio beer pub di quartiere ha aperto due mesi prima, alla fine di Marzo. È il Luppolo12, a San Lorenzo, gestito da ragazzi con un’insana passione: oggi, quella stessa passione ha fatto crescere i ragazzi ed il locale; che conta 16 spine contro le 12 dell’apertura, e si è arricchito di una bella selezione di bottiglie raccolte durante i pellegrinaggi di Diego, Gabriele e compagni presso una Mecca oggi, Gerusalemme l’altroieri, una Medina birraria domani.
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È il 19 di Marzo dell’anno corrente: mentre scrivo, è ancora ieri. Il Luppolo12 ospita dietro le linee di spillatura Agostino Arioli, mente e braccio del Birrificio Italiano. Agostino è il papà della TipoPils, della BiBock, della Amber Shock; della Cassissona e della Scirès, l’alchimista dietro la Nigredo ed il sacerdote tribale che ha concepito la VuDù, matriarca delle dunkelweizen italiane.
Io l’ho incontrato in ordine sparso diverse volte, sempre troppo concentrato o circondato di gente per poter fare due parole; quindi solitamente prendevo la mia Tipo e andavo via: questa volta non ho perso l’occasione.
Arrivo al Luppolo che ancora lui non c’è, e prima che arrivi mi son fatto una Delia – Pils ‘estiva’ con luppoli sperimentali Polaris e malto floor lavorato all’antica, delicata e potente, un amaro tagliente e decorato di note agrumate che incontra abboccature di miele e note floreali – poi una VuDù e un’Extra Hop – Pils alla tedesca limpida e lineare, ricca in amaro e aromi di frutto verde, donati dai luppoli in fiore raccolti nel Tettnang pochi giorni prima della brassatura stagionale.
In mezzo alle etichette attaccate sulle spine, su una delle vie fa capolino il logo del Birrificio, sormontato da un grosso punto interrogativo. “E questa che è?!” – chiedo – “Una sorpresa” – mi rispondono. Cresce la curiosità e torna la sete. Entra Agostino. Sono brillo. Sono pronto.
È una persona estremamente alla mano, di quelle che ispirano il dialogo rendendolo un atto naturale, in grado di trattare con chiunque abbia di fronte – esperto, ignorante, avventore casuale – senza un’ombra di boria o atteggiamenti da manuale. Parla della sua birra con schiettezza e sincerità, con una costanza nella tensione espressiva che rispecchia l’attenzione metodica per cui è celebre il suo stile di birrificazione. Ad averlo di fronte è evidente che si ritrovi nel bicchiere ciò che risalta dalla conversazione: semplicità, chiarezza, conoscenza infinita, una tensione intima e profondamente devota alla ricerca della perfezione.
Il mio bicchiere è vuoto: allora, sta’ sorpresa? Mi immagino tripelbock, altbier, göse e invece: “È un’IPA”; dice come se stesse bevendo un bicchiere d’acqua fresca. Sguardi sgomenti e silenzio, è davvero una sorpresa specie a Roma, ove il grido “checciaideIPA?” è diventato l’urlo d’assalto dei novizi occasionali della birra artigianale. “È uno stile che mi piace molto, e adesso che la situazione di clamore si è un po’ normalizzata volevo dire la mia” – dice. E un nome? “Un nome non ce l’ha! È ancora in fase di perfezionamento – quando sarà pronta, ce l’avrà”.
Allora mi chiedo cosa significherà mai che un prodotto “è pronto” secondo i parametri di uno che insegue l’equilibrio totale, quanti tentativi serviranno per il kaizen dei continui aggiustamenti; e se in termini di tempo per avere l’IPA finita vincerà l’insaziabile appetito per l’adeguamento dell’oggetto all’ideale o se il grandissimo talento di Agostino avrà la meglio, sferrando in breve l’attacco finale, che farà capitolare la nuova produzione sotto gli altari della perfezione birraria. Lo guardo negli occhi grandi, un sopracciglio inarcato, un sorriso con gli angoli alzati: sarà pronta presto, “speriamo presto!”, dice. E per stasera la chiameremo – nome in codice – XXYYZ.
Ed eccola scorrere nel bicchiere, spillata alla tedesca per adeguare la carbonatazione, un cappello di schiuma invidiabile, un fungo compatto e fine, limpida e color del bronzo: la porto al naso, esplode, non riesco a trattenermi dall’assaggiarla prima di farle una foto – succederà lo stesso con le due pinte successive. È buonissima, scorrevole, i malti pale lasciano una traccia dolce appena accennata che si integra in un amaro netto, disegnato attorno alla trama dei grani: le sensazioni retrolfattive deflagrano nel tipico circo pirotecnico dei luppoli americani fatto di pompelmo, ananas, accenni di aghi di pino, espressi con potenza notevole ma ben delineata, e completati da inconsuete sensazioni balsamiche e verdi, di erba falciata. “Avevo fatto il bravo, stavolta: mi ero preparato tutto per fare una birra tipica, avevo letto un sacco di libri sulle IPA” – disegna in aria delle scatole, dei corridoi, i confini dello stile – “ma poi… Mi sono trovato 20kg di Tettnanger in fiori e ce l’ho buttato dentro…!”. Il risultato è stupefacente, ci vuole confidenza coi luppoli per lasciarli parlare a questo modo. Il Tettnanger devia la XXYYZ dallo standard delle IPA aggiungendo una freschezza atipica che invoglia, se possibile, ancora di più alla bevuta; arricchendo le note agrumate dello stile americano con un ronzio pungente ed erbaceo di natura bavarese che secca la bocca e la gola richiedendo un altro sorso, un’altra pinta, un’altra ancora.
“La vorrei più attenuata, meno dolce, lavorerò sulla miscela dei malti e dei lieviti per aggiungere corpo e un filo di viscosità” – mentre lo dice immagino di berla e già sento di volerla, vittima designata di una condanna alla sete eterna.
Il Birrificio Italiano festeggerà il 3 Aprile prossimo suoi primi 18 anni, che coincidono con la raggiunta maggiore età della birra artigianale italiana. Ed ancora una volta ha colpito, confermando l’abilità di dare vita a creazioni essenziali ma dotate di un’impronta forte, elegantissime, che sopravvivono alle mode e al tempo nonostante le forti influenze che queste esercitano sull’intero settore birrario. Anche la XXYYZ sarà un classico intramontabile, che vive d’intrinseca bellezza e non di luce riflessa: la Tipopils delle IPA.