Per ogni gastrofighetto che vive – o alberga dimessamente in noi – esiste un dilemma storico di stordente violenza interiore: la pausa pranzo. Già la definizione apre spazi di dolore non indifferenti.
Il pranzo come pausa (e non come momento fondativo della giornata, prima dell’arrivo della cena), è l’antitesi della goduria gastronomica! Andrebbe chiamata pausa sopravvivenza per ridurne le aspettative.
Soprattutto dovremmo smetterla di infiocchettarla con inutili suppellettili come questi portavivande inutilmente chic che ambiscono a celebrare l’incelebrabile (ma anche i relativi consigli nutrizionali sembrano rubati allo spazio del medico al telegiornale).
Perché pranzare in ufficio è brutto!
Persino più brutto di uscire fuori e mangiare antipasto, primo, contorno, secondo, dolce, caffè e massaggio ai piedi al cinese, per 8 euro…
Purtroppo l’alimentazione non è come la politica: non si può nascondere un problema facendo finta che non esiste. Ingerire delle pietanze dalle ore 13 alle 14 è una necessità per tutti coloro che non siano:
– ricchi
– liberi professionisti in moto costante
– salutisti estremi
– ingurgitatori di carboidrati durante la lettura del calciomercato
– capaci di saziarsi con la frutta o lo yogurt
Dipaniamo la matassa (volevo dirlo dal 1989)
Punto 1: La questione microonde. È lo strumento dominante. La sua dittatura è crudele e indifferente. Spietata, come la fila per accedervi: decine di persone depositano con fatalismo le loro schiscette per quei 4 minuti in cui il contenuto verrà disumanizzato.
Se dovete usarlo affidatevi all’istanza arrosto. Dicesi istanza arrosto la riproposizione della pietanza serale nel contesto lavorativo. Il vegetariano muore o mangia male, perché un piatto di pasta, di riso, una torta salata o delle verdure nel microonde smetteranno di essere cibo. Il pesce? Opzione non praticabile.
Punto 2: I primi e la questione temperatura. Se avete accettato l’idea di privarvi del microonde dovete mostrarvi pronti a sacrificare la corretta temperatura dei cibi (e il sonno mattutino) a favore della loro integrità. Come?
Cucinando la pasta al risveglio e non la sera, scolandola praticamente cruda, usando il suo condimento a freddo (uno funzionale, non il ragù diamine!) e stendendola su una superficie larga per evitare la dimensione colla. Solo dopo potete deporla nell’umile contenitore.
Punto 3: Le insalate. Qui la mattanza è organizzativa. Necessari più contenitori (perché non vorrete condirla a molte ore dal fruirla!) e una zona diversamente collettivizzabile per olio, aceto e sale in ufficio.
Se credete nell’aggiunta di tonno considerate la tristezza dell’apertura nel lavabo per scolarne l’olio. Le più adatte rimangono quelle di riso o farro, o di pasta in periodi estivi. Non le amate? Imparate ad amarle.
Punto 4: Supermercato. I più grandi hanno discrete aree gastronomiche dove comprare qualcosa di commestibile. La soluzione potrebbe trovarsi in salumeria, più che nella zona “gastronomica”, dove a fianco di verdure lesse e verdure grigliate campeggia la versione triste del sushi o le solite trofie al pesto.
Alcuni propongono dei tramezzini bio. Assomigliano a quelli non bio ma costano il triplo. Infatti occhio al budget: la scelta potrà valere come lo strappo settimanale di pizza e birra o menù in osteria.
Postilla: non trovate inaccettabile il prosciutto cotto confezionato? Davvero? Ok, apritene una confezione e lasciatela in frigo qualche ora. Riaprite e immergetevi nel sentore chimico. Potreste cambiare idea e aumentare lo spettro delle vostre categorie olfattive alla prossima degustazione.
[Crediti | Link: Puntarella Rossa, immagine: SchiscettaBlog]