“Una cosa divertente che non farò mai più”: se dovessi riassumere in una frase la mia esperienza al Bue Grasso, sarebbe questa. E, se siete abbastanza indulgenti da perdonare un atto di ubris come iniziare un post citando David Foster Wallace (forse lo scrittore che ci manca di più), passo a raccontarvi la mia esperienza.
Cos’è la Fiera del Bue Grasso? Il Bue Grasso si tiene a Carrù (CN) da centodue anni, il secondo giovedì prima di Natale. Come spiega il laconico sito del Comune, è una competizione a cui sono ammessi
“esclusivamente bovini da macello di razza piemontese, suddivisi nelle categorie buoi, manzi, vitelle e vitelli, vacche, manze, torelli e tori”.
Una giuria di esperti valuta i capi, e alla fine c’è questa cerimonia di premiazione con tanto di gualdrappe, medaglie, coppe e targhe. C’est tout. Vabbè, ma cosa c’è di così affascinante nel Bue Grasso da spingere una persona che non sia un allevatore – o uno psicopatico acclarato – ad andarci? Per la risposta, dovete attendere il resto della storia.
Giovedì 13 dicembre, appena arrivati a Carrù, l’orologio segna le sei di mattina e il termometro meno cinque. Le strade sono già affollate, di anziani piemontesi con cappello e tabarro, e di garruli giovani, pimpanti che neanche prima di un rave. Tira più un bue grasso …
Al foro boario (ho sempre sognato di dirlo) stanno arrivando i buoi, la gente inizia a radunarsi per osservarli con aria estremamente seria e concentrata. Dopo aver provato ad assumere la stessa aria assorta con risultati modesti, decidiamo che ora improbabile e temperatura proibitiva giustificano insana dosi di grassi e zuccheri. Attenzione perché arriva la parte più affascinante e hardcore del Bue Grasso: i bar e i ristoranti di Carrù propongono, fin dalle prime ore della mattina, brodo, bollito, e vino rosso.
Ci chiudiamo in un bar ordinando bottiglie di Barbera e ciotole di brodo in rapporto di 1:1, così doveva essere, ma la proporzione si sbilancia presto verso un più realistico 3:1. Usciamo sbronzi rinfrancati mentre il sole spunta su Carrù. Il tempo di instagrammare qualche bue, fare un giretto al mercato intorno al foro, ed è già ora di fare colazione. Stavolta sul serio, però.
Alle nove si aprono le porte del tendone della Pro Loco locale, e noi lì ci dirigiamo, snobbando tutti i ristoranti che propongono menù tradizionali piemontesi. Il nostro menù sarà: bollito misto, cotechino e polenta, Dolcetto ad libitum. Mentre affondo goduriosamente lingua e testina nella salsa verde, riesco persino a strutturare qualche riflessione. Rifletto, per dire, sul perché le convenzioni sociali ritengano questo tipo di colazione inappropriato rispetto, non so, a un bombolone alla crema. O anche (ma l’alcol mi ipedisce di approfondire) quanto sia bello che esistano ancora cose del genere, tradizioni, vivaddio, che non sono diventate slot machine per turisti, infiocchettandosi, travestendosi, fondamentalmente snaturandosi. Per essere chiari,
a Carrù non ci sono:
— chef star
— comparse in costume pseudo tipico
— improbabili banchetti di souvenir
a Carrù ci sono:
— sonno
— freddo
— vino
— bollito
questo è il Bue Grasso, esperienza connaturata con una certa dose di masochismo, prendere o lasciare. Noi abbiamo preso, e torniamo a casa soddisfatti, mentre timidamente alcuni raggi di sole cercano una via d’uscita in mezzo alla più compatta delle nebbie langarole.
E noi cerchiamo il Maalox nel cruscotto.
[Crediti | Immagini: Victoria Dibbern e Anika Mester]