Per la serie l’eterna lotta contro i mulini a vento oggi torniamo a combattere contro il coperto al ristorante.
Certo, lo abbiamo fatto pochi giorni fa, ma ora si è accodato il Corriere Milano. Con argomenti decisamente interessanti.
Prima un po’ di storia: l’inveterato balzello è nato a inizio Novecento in una precisa tipologia di locande, quelle dove si poteva consumare il pranzo al sacco, previo pagamento di un posto “al coperto”.
Come e perché una secolare imposizione sia arrivata senza intralci sino a noi attiene al campo dell’imperscrutabile.
Poi il testimonial: contro la tassa ombra sull’edizione milanese del quotidiano si schiera persino il vicepresidente Confcommercio Alfredo Zini, definendola anacronistica e antiquato. Però come i gamberi fa un passo avanti e uno indietro: “sono scelte imprenditoriali, la regola non scritta è applicare un costo equivalente al dieci per cento del conto, poi ognuno decide da sé. Quel che importa è che la voce sia chiaramente indicata nel menu“.
Quindi le regole: ne esistono anche di scritte. L’odioso tributo viene disciplinato da normative regionali. Nel Lazio per dire, fiaccati dagli sguardi in cagnesco dei turisti esterefatti, l’hanno abolito nel 2006. Anche Milano si è data da fare, di recente almeno 200 ristoranti hanno levato il coperto, la tendenza è far pagare solo il pane.
Infine la situazione a Milano: se 2,50/3 euro sono la norma, in centro ritrovarsi anche 5 o 6 euro di coperto non è così difficile. In zona Cordusio, il Santa Marta nella via omonima chiede a 4 euro. Il Biffi in Galleria Vittorio Emanuele arriva alla cifra record di 6,50 euro, il Savini 6 euro. 4 euro per la Trattoria della Pesa in viale Pasubio zona Brera Garibaldi, 2, 50 da Anema e Cozze di via Casale, 5 euro al Bagutta in zona Monte Napoleone.
In tema di balzelli più o meno occulti fatti pagare al cliente del resto, non è che ai ristoranti manchino le possibilità di ammortizzare diversamente. Basta pensare ai trucchi che molti usano per farci scucire qualche euro in più. Corriere Milano ne ha messi insieme sei.
1) Da questa parte, prego.
Avete presente quando il locale è vuoto, eppure ci fanno accomodare nel tavolo davanti all’ingresso – sì, esatto, dove arrivano gli spifferi, la porta sbatte e ci sentiamo osservati dai passanti come pesci in un acquario? Ecco, loro vogliono farci osservare, vedere, notare. Cosa c’è di meglio per attirare clientela, che mostrare quanto se la stanno spassando gli avventori?
2) Last but not least.
All’università abbiamo sempre bigiato il corso di psicologia della memoria. Peccato, sarebbe servito. Avremmo scoperto che il cervello tende a ricordarsi meglio le ultime voci di un elenco. E dunque, se nell’esporre i vini in carta o i piatti del menu, il cameriere inizia dai meno costosi, è tutt’altro che un caso.
3) Lo chef consiglia …
Sì, vabbè: la sa anche un bambino di 5 anni. Davvero qualcuno crede che specialità del giorno o proposta della casa siano non siano un modo per sbarazzarsi degli avanzi?
4) Non dire no.
Amaro o caffè? Dolce o liquorino? Verdure o patate al forno? Fateci caso: i camerieri raramente lasciano la possibilità di rispondere sì o no. Meglio proporre l’alternativa tra due scelte.
5) Le parole sono importanti. Ma non solo quelle.
Altra lezione che avremmo dovuto seguire all’università: prossemica, la scienza che studia il linguaggio del corpo. Gesti e toni di voce contano quanto le parole. Così prima di nominare il piatto che vuole farvi ordinare, il cameriere fa una pausa grave, poi alza la voce per dare maggiore enfasi e assicurarsi l’attenzione del cliente.
6) Mai nascondere, sempre mostrare.
L’acquario con i pesci [sic], il buffet degli antipasti, il carrello dei formaggi, la vetrina dei dolci. Oltre che chiari segnali di cattivo gusto, sono tentativi invogliarvi a ordinarle: più cose vediamo, più cose vogliamo. Semplice e lapalissiano.
Complottismo esagerato o innegabile realtà? In attesa di risposte, vi prego ristoratori, levate coperto e servizio dai vostri menu.