Mi perdonerete se il diapason che dà il la a questo post è ancora una volta Carlo Cracco, che durante Cibo a regola d’arte, intervistato da Ferruccio De Bortoli, ha confessato che il vero segreto della cucina è osservare le nonne. E’ una lezione che certamente va appresa, consci che senza fondamenta non puoi costruire un palazzo, e in aria non regge nemmeno un castello di carte.
Quello di Anna Gosetti della Salda rimane il più importante libro di cucina italiano, e nel tracciare la genealogia culinaria di Massimo Bottura il nome più remoto che riusciamo a fare è quello della rezdora Lidia Cristoni, la sfoglina del suo ristorante. Personalmente, ricordo con sincera emozione il giorno del rinvenimento di un vecchio quadernetto degli anni ’70 che mia nonna usava come ricettario: la complessità e la perizia di alcune ricette mi colsero completamente alla sprovvista, erano tempi in cui la cucina era il primo luogo di lavoro di molte donne e la necessità imponeva uno sfruttamento degli ingredienti in cui trovo rimandi alla contemporanea Mystery Box di MasterChef. Del resto il genio scaturisce spesso dalla necessità, molta grande cucina è nata per combattere la fame: penso alle ricette di Petronilla sulla Domenica del Corriere, o alle massaie ottocentesche che inventarono dal nulla il quinto quarto, per rendere più che commestibile qualcosa che veniva loro dato e considerato di nessun valore, scarti di macellazione altrimenti destinati ai cani.
Tutto quello che ho detto fin qui è vero, ma va detta anche un’altra verità, perché il filo che ci lega alla cucina dei nostri avi va retto saldamente, ma facendo attenzione a non strozzarcisi.
Continuiamo a essere un paese di pastasciuttari, gente all’apparenza facilmente soddisfacibile che si commuove sul bollito di mammà, quella italiana, che ancora e sempre, come nei varietà e nelle barzellette, tiene legati i figli maschi col ragù. O con altri piatti tradizionali che troviamo pesanti e superati ma poi tutti, gourmet inclusi, finiamo per preferire ripensando a cosa mangiavamo quando eravamo piccoli.
IL MIGLIOR RISTORANTE DEL MONDO NON E’ LA MAMMA.
Se mi avessero dato mezzo euro ogni volta che ho sentito dire a un mio connazionale “il miglior ristorante del mondo è la mamma”, oggi il mio nome sarebbe nella lista degli scapoli miliardari pubblicata da Forbes, #einvece. Senza dimenticare quanto detto sopra, l’esaltazione a prescindere della cucina casereccia genera mostri, tra cui il pregiudizio verso la cucina creativa, etichettata come “nouvelle cuisine” senza la minima idea di cosa significhi il termine in oggetto e sbeffeggiata a prescindere per l’esiguità delle porzioni. Panza mia fatti capanna! Poi uno si stupisce del successo delle formule “se magna tanto (‘sti cazzi del come) e se spenne poco”, eh.
E la tecnica, la tecnica di un bravo chef è qualcosa che si apprende da abili maestri, dopo duri anni di sudore e calli, in cui ti prendi schiaffi e urlacci dentro una cucina, tomba della tua vita sociale, i cui fumi portano al precoce invecchiamento della pelle, non già con una generica esperienza fatta di continue ripetizioni di gesti ancestrali, che comunque debbono essere preservati.
Ogni volta che un italiano dice che il miglior ristorante del mondo è la mamma, un ristorante che cucina meglio della suddetta mamma chiude, lasciando dipendenti senza lavoro e creditori a bocca asciutta.
[Crediti | Link: Corriere Tv, Dissapore, immagine: Time]