Più che preferibili (per dire) a quelli di tante bellone, gli adepti di Luciana Littizzetto, fattezze lontane dai canoni della soubrettina raccomandabile, sicuramente intelligente, sicuramente simpatica, icona della sinistra auto ironica e anti snob, sanno benissimo che l’oggetto della loro ammirazione dal 2010 è protagonista degli spot Coop: mai binomio fu più riuscito.
Nelle pubblicità Littizzetto ci fa credere a una Coop rassicurante, praticamente familiare: un luogo dove fare la spesa è bello, e indubbiamente, lo sarà anche lavorare se persino una petulante anti-panterona come la Lucianina nazionale dice “Vengo a vivere alla Coop”.
Ma sembra che l’idilliaca immagine non corrisponda alla realtà.
Nella lettera, le precarie Coop raccontano di “salari che non arrivano a 700 euro anche se lavorano sei giorni su sette (domeniche comprese)“, di un ambiente maschilista, dove i dirigenti sono tutti uomini e capita di “subire in silenzio finanche le molestie da parte dei capi dell’altro sesso per salvare il posto o non veder peggiorare la situazione“, e in definitiva di un posto dove si lavora “in condizioni di quotidiana ricattabilità, sempre con la paura di perdere il posto e perciò sempre in condizioni di dover accettare tutte le decisioni“.
Un brutto colpo in termini di immagine per un’azienda spesso percepita come la bright side della GDO, il supermercato di cui fidarsi, che si preoccupa della salute e del portafogli dei consumatori e dove dovrebbe annidarsi, per definizione, lo spirito cooperativo e di tutela per chi lavora.
La richiesta delle lavoratrici è semplice: invitano la Littizzetto a girare con loro uno spot “in difesa delle donne e per la dignità del lavoro”. In attesa che l’attrice risponda, è già arrivata la replica della Coop. In una nota fa sapere che le informazioni contenute nella lettera sono infondate, e che – anche in un periodo di crisi economica – loro mirano sempre a “una politica di stabilizzazione del personale”.
Qui trovate il testo completo della lettera.
[Crediti | Link: Corriere.it]