E’ il nuovo direttore de La Cucina Italiana, è giovane, gastrofissata, twitta e ha il compito di traghettare la storica rivista di cucina nell’era dei foodblog, dei foodshow, degli chef-star e di tutto il magna magna generale che intasa i mezzi di comunicazione. Scusate eh, ma ama Dissapore, anche.
Serviva altro per chiederle di rilasciarci un’intervista, farci dire chi ancora legge ricette, cosa pensa dei foodblog, chi salva e chi boccia nel grande circo della gastrosfera, e se si sente più Antonella Clerici o Benedetta Parodi?
Dunque, mettetevi comodi, ecco quel che ci ha raccontato in via confidenziale Anna Prandoni…
D. Hai 37 anni, come ti senti a dirigere una rivista che potrebbe essere tua nonna?
A.P. Io adoravo le mie nonne! Ed è con loro, e con il mio Dolce Forno, che ho fatto i primi passi in cucina. Dalle nonne ho imparato e dalle nonne mi sono affrancata, cercando di tenere il buono e rivendicando la mia indipendenza, anche gastronomica. La Cucina Italiana è nonna di tutti noi, ma è anche un pilastro della cultura gastronomica del nostro Paese, e ha visto in 84 anni di storia tutte le trasformazioni e i cambiamenti sociali e culinari. Io sono qui per darle una mano ad adeguarsi all’attualità, ma è arzilla e sul pezzo più di tanti nipotini nati nel frattempo.
D. Sta per uscire il primo numero de La Cucina Italiana con la tua firma da direttrice, cosa ci hai messo?
A.P. Un panino in copertina. I miei genitori pensano che io sia pazza, il mio Editore mi ha dato corda ma so che in cuor suo sta già ripensando alla sua scelta di me come direttore. La Redazione si è convinta per sfinimento o forse perché sto dando loro un tale da fare che non hanno avuto modo di pensarci. L’ufficio stampa e il marketing puntano sulla copertina di rottura più per convenzione che per convinzione. Mio marito, che l’ha assaggiato, è l’unico – insieme allo chef che l’ha creato – che mi dà supporto incondizionato (ma lo fa da sempre e su quasi tutto). Io più lo guardo e più penso che mi piace, e che anche un panino, se fatto da La Cucina Italiana, può essere un piatto intrigante. (Comunque dentro la rivista c’è anche altro, ok??)
D. Ma dimmi, in confidenza, cosa pensi dei foodblog?
A.P. Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.
D. Non puoi…
A.P. Ok, rispondo. Amo e odio il mondo dei foodblogger: spessissimo sono persone meravigliose, con una gran voglia di fare, una passione sfrenata, un autentico desiderio di comunicare in modo sano e giocoso, senza ambizioni di diventare il nuovo Carlo Cracco o la reincarnazione di Gianni Brera. A volte, invece, sono persone che cercano di seguire la moda convinti di poterci guadagnare, anche solo in termini di visibilità. Queste poche eccezioni rovinano irrimediabilmente un mondo che per la maggior parte rimane bello e buono.
D. Dunque, racconterai la cucina secondo un modello femminile che non sarà quello delle foodblogger, né quello delle Antonelle Clerici e delle Benedette Parodi?
A.P. Non so se sono pronta a incarnare un modello, so che sono un Direttore di tipo b, la cucina mi piace davvero, non la seguo perché è una moda. L’ho vissuta da dentro grazie alla lunga esperienza nella nostra Scuola di cucina. Non ho gli schemi classici del giornalista, non vivo il marketing come un rivale da combattere, non cerco la perfezione ma il piacere di condividere scoperte e novità. Non sono ossessionata dal digitale che cannibalizza la carta, anzi al limite per me è il digitale il mezzo sul quale investire risorse ed energie. Da questo punto di vista sono una privilegiata: posso usare entrambi i mezzi e declinare su ciascuno i nostri contenuti. Se sarò un modello, lo scriveranno quelli di Dissapore tra un po’…
D. ehm…ehm… Anna, ma dimmi, sempre in confidenza, le riviste di cucina da edicola, in generale, chi le legge??
A.P. Ormai chiunque si professa appassionato di cucina, non esserlo non è cool. Leggere le riviste legate al cibo è sport nazionale, e lo fanno in tanti. La Cucina Italiana ha un pubblico trasversale, con un’alta percentuale di lettori uomini e tanti fedelissimi che non perdono un numero e collezionano la rivista come fosse un’icona.
D. E chi invece vorresti che leggesse la tua La Cucina Italiana ?
A.P. Nel mio target ideale del futuro vorrei ci fossero i giovani che si avvicinano a questo mondo perché è di moda ma sentono il bisogno di approfondire l’argomento, hanno voglia di giocare sul tema e non hanno preclusioni, retaggi, sovrastrutture. Quelli che si vogliono stupire e informare, e quelli per cui la cucina è fondamentalmente un modo per stare bene in compagnia. In fondo, per noi è la vita, ma per il resto del mondo è solo un piatto da mangiare!
D. Ma tipo, gente come noi, come interesserai i gastrofissati?
A.P. Per i gastrofissati o gastrofighetti ho qualche asso nella manica, spero di offrir loro occasioni e stimoli con argomenti e presentazioni non consueti. Ma non prima di settembre, quando ci sarà il restyling grafico al quale stiamo lavorando.
D. Se dovessi definire la tua rivista con tre aggettivi, quali useresti?
A.P. La mia o quella che dirigo? La mia dovrebbe essere autoironica, innovativa, digitale.
Quella che dirigo… Oggi è autorevole, completa, classica. Domani, spero sarà un mix equilibrato di queste due visioni. Cerco il balance tra foodies e nonne.
D. Tre nomi up e tre nomi down nel mondo della cucina oggi…
A.P. Grande spolvero per Lorenzo Cogo, Alessandro Negrini e Dissapore (ok, il terzo nome era un altro ma già che siamo qui, rendo omaggio al padrone di casa che mi ospita).
D. Eddai, dicci il terzo…
A.P. In sostanza: tutti quelli che cercano di fare bene e in maniera creativa questo lavoro, senza esasperare il loro ruolo. Al contrario, trovo che ci sia grande bisogno di rinnovamento nella cucina in generale, e nei ristoranti ‘medi’ in particolare, dove i problemi sono nei piatti e ancora di più in sala. Finché la prima frase che sentirò all’entrata di un ristorante è ‘Avete prenotato?’ (a volte con un dito indice puntato in faccia) so che non andremo lontano. Pollice verso anche per il piatto pronto ‘premasticato’, quello che soddisfa un bisogno primario senza rispettare ingredienti, stagionalità, cultura. E poi, la categoria che più detesto: tutti quelli che si inventano un lavoro nel mondo del food perché fa figo. Questo mestiere è fatto di sacrificio, costanza, passione ma anche grande professionalità. E quest’ultima non si inventa, ma si costruisce nel tempo.
D. Le ricette: esiste un modo nuovo di raccontarle? Non hanno un po’ stancato?
A.P. Stancato? Anzi! Le ricette che stancano sono quelle farlocche, quelle che quando le metti alla prova dei fornelli non vengono, quelle inventate senza capo né coda. Ma le ricette ben scritte, giuste, che vengono sempre sono un patrimonio immortale che gli amanti della cucina ricercano come il Santo Graal. Il modo di scriverle deve e può cambiare… Io come esercizio di stile le scrivo in 140 caratteri. Funziona? Non so, ma i follower retwittano, e io mi diverto moltissimo.
[Crediti | Link: Bigodino, immagini: I-Italy, Odd Produzioni, Riccardo Lettieri]