La spending review familiare ci fa mangiare meno pane. Siamo in buona compagnia, peraltro, persino i francesi tagliano sulla baguette. Non è solo una questione di budget, io per prima non vado tutti i giorni dal fornaio, e in casa non faccio mancare le gallette di riso o di farro, perfetto e insapore alter ego dietetico del pane fragrante.
Peccato, perché in Italia la storia dell’artigianalità si assaggia a ogni morso. Verrebbe da dire mangiamone meno, ognuno per i suoi ragionevolissimi motivi, ma almeno mangiamolo buono.
Segue una selezione di 20 varietà di pane, una per regione, che dovrebbe riaccendere la voglia.
VALLE D’AOSTA
Miassa o miasca: parente prossima del millas, dolce francese a base di farina di mais. La miassa è una cialda salata agilmente inseribile tra i pani non lievitati di montagna – ve ne sono numerosi esempi nelle Alpi, ma non solo. L’area interessata è abbastanza ampia, a cavallo tra Piemonte e Valle d’Aosta, in particolare tra l’alto Canavese e la valle del Lys.
Un semplice impasto di farina e acqua (alcune versioni prevedono l’aggiunta di latte, burro) lavorato sino a ottenere un composto omogeneo, che viene poi versato nel millasseur: tenaglia a due piastre, unte di lardo, in seguito posto sulla brace. La forma delle sfoglie può essere tonda o quadrata, a seconda delle piastre.
PIEMONTE
Grissini stirati: Questi grissini dovrebbero derivare dalla grissia, pane di antichissima tradizione diffuso tra il Torinese e l’Astigiano. Oggigiorno, l’impasto prevede farina di grano tenero 0 o 00, acqua, lievito, strutto e sale, impastati per circa 15 minuti. Dopo la lievitazione, che dura un paio d’ore, la pasta è tagliata in listelle che vengono stirate manualmente con movimento circolare, fino alla lunghezza massima di un metro e mezzo.
Mai confondere gli stirati con i robatà, tipici delle Langhe e del Chierese, che possono sì essere inseriti nella famiglia dei grissini, ma l’impasto è più duro, la forma più corta e irregolare, e in bocca risultano più croccanti (perché l’impasto è più simile al pane) e meno friabili.
LIGURIA
Pane di Pigna: prodotto dall’impasto di farina tipo 2, acqua, sale e lievito. La pasta subisce una prima lievitazione breve di 15 minuti circa, dopodiché viene divisa in forme da 350 grammi, tonde o quadrate (su queste ultime vengono impresse con le dita delle piccole fossette sulla superficie).
Prima dell’infornata, a 200° circa, le forme sono cosparse con una presa abbondante di crusca. La crosta brunisce, e l’alveolatura deve essere fine e uniforme.
LOMBARDIA
Tiròt di Felonica: è una focaccia tipica prodotta a Felonica, ultimo comune della bassa mantovana, al confine tra Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Il tiròt è un prodotto della tradizione contadina, consumato principalmente durante il lavoro nei campi o alla fine della giornata quando le famiglie si riunivano nelle fattorie.
L’impasto è a base di farina di grano tenero, cipolla, strutto, lievito, acqua e sale. Il nome ricorda il modo di stendere a mano la pastella sulle teglie da forno. Tagliata in forme rettangolari, la focaccia ha colore paglierino intenso e uno spessore di pochi millimetri. La caratteristica principale del tiròt è l’aroma intenso di cipolla.
TRENTINO ALTO ADIGE
Pan de molche: pane povero del territorio dell’alto Lago di Garda, zona nota anche per l’ottimo olio d’oliva. E infatti, questo prodotto tipicamente contadino è riservato al periodo della spremitura delle olive: all’impasto di farina integrale, sale e lievito venivano aggiunti i residui solidi delle olive che rimanevano in sospensione nelle acque reflue della spremitura, e che nel dialetto locale sono chiamate molche.
Ne risulta un pane scuro, dall’intenso profumo di oliva, amarognolo (veniva anche aggiunto parte dell’olio nuovo in produzione) e molto nutriente.
VENETO
Pan biscotto: prodotto in tutta la regione, ma in maniera particolare nel Basso Vicentino e nel Polesine. Era il pane di riserva dei contadini, grazie alla lunghissima conservabilità. Il pan biscotto prevede una lavorazione di circa 30 minuti.
L’impasto è ottenuto da farine di media forza, lievito naturale, sale fino, acqua, strutto. Dopo una prima lievitazione, di circa un’ora, la pasta è tagliata e formata in pezzature che vanno da 80 a 100 grammi. Segue un’altra breve lievitazione (30 minuti). La cottura avviene in forno a 210-240 gradi, dove il pan biscotto aumenta lievemente di dimensione. Dopo circa 40 minuti il pane viene tolto dal forno, che va poi lasciato raffreddare fino a 140 gradi. A questo punto viene re-inserito in forno.
Nella cottura tradizionale per un tempo molto lungo: 40 ore, per la biscottatura naturale. Questo conferiva al prodotto la capacità di conservarsi fino a sei mesi. Nei forni di oggi la ri-cottura è di circa 6 ore (biscottatura forzata), in genere avviene con gli sportelli del forno aperti, di modo che la temperatura non salga troppo.
FRIULI VENEZIA GIULIA
Pan di sorc: pane dolce e speziato, ricco di contaminazioni d’oltralpe raccolte dai lavoratori stagionali nei loro soggiorni in terra asburgica. Le famiglie del Gemonese preparavano questo pane per le feste, in particolare in occasione del Natale.
La base del pan di sorc è una miscela di farina di mais (il sorc, appunto), segale, frumento e fichi secchi, in alcuni casi anche uvetta e semi di finocchio. Il pan di sorc è una pagnotta rotonda alta pochi centimetri e con la crosta molto scura e fragrante, che contrasta con la mollica gialla dal caratteristico aroma di polenta. Fresco si consumava sia dolce sia come accompagnamento ai salumi. Essiccato, era inzuppato nel latte o usato come ingrediente nel crafut—una polpetta di fegato e reni di maiale tritati ed impastati con pane di mais grattugiato, uva sultanina, scorze di limone e mele.
EMILIA ROMAGNA
Pane di zucca: prodotto in buona parte dell’Emilia, ma è al confine con la provincia di Mantova (territorio d’elezione per la coltivazione delle zucche, insieme alla zona di Ferrara) che il pan di zucca trova la sua espressione migliore.
Ottenuto dall’impasto di farina tipo 0, lievito di birra, sale e zucche lessate. Il composto va lavorato fino all’ottenimento di una pasta liscia e compatta, che viene tagliata nelle pezzature più disparate, a seconda delle tradizioni e delle abitudini dei fornai. A cottura terminata la crosta deve essere di un bel dorato intenso, la consistenza morbida e spugnosa, il gusto piacevolmente dolce.
TOSCANA
Marocca di Casola: è un panificato a base di farina di castagne tipico della Lunigiana, valle a metà strada tra il mare di Massa-Carrara e le cime delle Apuane. Fitta di boschi pieni di castagne (di varietà Carpanese, Punticosa, Rastellina) macinate dopo l’essiccamento per fare la farina per il pane e la polenta. Ogni famiglia aveva un forno a legna e la domenica, quando non si lavorava nei campi, si produceva il pane per tutta la settimana.
Il nome marocca pare derivi dal termine dialettale marocat, cioè “poco malleabile”. Questo pane, infatti, aveva una consistenza molto dura. Grazie alla piccola percentuale di patate contenuta nell’impasto, la marocca si conserva bene anche per molti giorni e si consuma con i formaggi caprini morbidi e con il miele.
MARCHE
Crescia maceratese: legata alla panificazione domestica, assume nomi diversi a secondo della zona. Un tempo il pane nelle case veniva prodotto una o due volte alla settimana, e dalla pasta avanzata si otteneva questa “pizza” bianca, ossia una spianata di pasta di pane tonda dalla forma irregolare, su cui venivano impresse leggere ditate perché l’olio d’oliva fosse contenuto meglio nell’impasto.
In genere viene lasciata bianca, ma è abbastanza diffusa anche nelle varianti con il rosmarino e la cipolla. Curioso il nome che prende nell’Ascolano: qui infatti la crescia diventa caccia ‘nnanz (cioè “togli prima”), dall’abitudine di cuocere queste pizze prima del pane per verificare la temperatura del forno.
UMBRIA
Pan nociato: diffuso in tutta la regione, è in particolare uno dei simboli gastronomici di Todi. A differenza dell’omonimo marchigiano, che gli ingredienti rendono più simile a un prodotto di pasticceria che a un panificato, il pan nociato umbro rientra nella tradizione italiana dei “dolci non dolci”: l’impasto tradizionale prevede la solita base di farina, acqua e lievito, cui vanno aggiunti gherigli di noce pelati e pestati, pecorino di Norcia grattugiato, olio d’oliva sale e pepe.
Ci sono poi lievi varianti locali: chi ci aggiunge l’uvetta, chi i chiodi di garofano, chi il vino rosso. Anticamente la lievitazione durava una notte intera, ora ci si limita a 4-5 ore, dopodiché le forme vengono cotte a 200 gradi per 35-40 minuti.
LAZIO
Pane Casereccio di Genzano igp: è un panificato prodotto esclusivamente nel comune di Genzano (provincia di Roma) ottenuto da farina di tipo 0 o 00, lievito naturale, sale, acqua e cruschello di grano. Dopo l’impasto è lasciato a crescere per circa 1 ora, ma è soltanto a seguito del controllo diretto effettuato da parte del fornaio che la pasta può essere spianata in pagnotte o filoni che devono essere collocati dentro casse di legno con teli di canapa e spolverato con cruschello o tritello.
La seconda alzata, dunque, avviene in un ambiente tiepido per circa 40 minuti. La cottura è tra i 300 e i 320 gradi, e dura in base alla pezzatura: può andare da 35 minuti a un’ora e venti. Crosta scura e una mollica color avorio caratterizzano questo prodotto, uniti al profumo di cereale genuino.
ABRUZZO/MOLISE
Pane senatore Cappelli: difficilmente chiamato così sul territorio teatino, dove questo pane è conosciuto nella pronuncia un po’ storpiata della varietà di grano da cui deriva: il senatore Cappelli, appunto. Qui invece diventa “pane di cappella”.
Il Senatore Cappelli è stata per lungo tempo, fino agli anni ’60 del secolo scorso, la principale varietà coltivata nel nostro Paese. Il progressivo abbandono di questa coltura, a favore di altre più produttive e apparentemente più resistenti, aveva portato alla quasi scomparsa del Cappelli dai nostri campi, e di conseguenze dalle nostre tavole. Fortunatamente, in tempi recenti, si sono rivalutate le grandi proprietà organolettiche di questo grano, che trovano una magnifica espressione in questo panificato a lievito madre dalla lunga lievitazione. Le forme più frequenti per questo pane sono il filone, e la rotonda, in pezzature di circa mezzo chilo.
CAMPANIA
Pane di Padula: Padula, nel Vallo di Diano (Salerno), oltre a ospitare una delle più belle e importanti certose d’Italia, è anche territorio d’elezione di questo pane casereccio dalla lunga conservabilità – quasi 15 giorni, ottenuto dall’impasto di farina di grano tenero e duro, sale, lievito naturale e di birra sciolti in acqua molto calda.
Impastato fino all’ottenimento di una pasta liscia e compatta, viene lasciato a lievitare per un periodo che varia a seconda del clima: 4-5 ore in inverno, 3-4 ore in estate. Prima dell’infornata l’impasto viene tagliato e modellato in pagnotte da circa 2 chili, su cui si appone la tradizionale incisione a croce.
BASILICATA
Pane di Matera igp: ottenuto mediante un antico sistema di lavorazione che prevede l’utilizzo esclusivo di semola di grano duro. Per essere tale il Pane di Matera deve essere composto al meno per il 20% da semole di locali e antiche, quali Cappelli, Duro Lucano, Capeiti, e Appulo, obbligatoriamente coltivate nella provincia di Matera.
E’ un panificato a lievito madre: dopo essere stato impastato e lasciato riposare 25-35 minuti (poi rilievitato per altri 30) viene cotto sia in forni a legna che in forni a riscaldamento indiretto. Il tempo di cottura può variare da un’ora e mezza fino a 2 ore, a seconda della pezzatura e del forno utilizzato. L’altezza della crosta è di almeno 3 mm, e le forme vanno da 1 a 2 kg. La mollica è gialla paglierino con alveolatura caratteristica.
PUGLIA
Pane di Altamura dop: L’ingrediente base di questo pane straordinario è la semola rimacinata di grano duro dell’Alta Murgia barese, mescolata con lievito naturale a pasta acida, acqua tiepida e sale marino. L’impasto si lascia lievitare per 3-4 ore, ricoperto da un panno di cotone dopodichè si riprende a lavorare la massa, modellandola in forme del peso desiderato. Dopo un’ulteriore ora di lievitazione, si incide un cerchio intorno alla forma. La cottura è in forno a legna a 200-300°C, e dura un’ora e mezza circa.
Il pane di Altamura è caratterizzato dalla tipica forma di cappello a falda larga e dalla crosta dorata. Il peso è solitamente intorno al chilo, ma è possibile trovarlo anche in pezzature più grandi. Presenta profumi tostati (a volte si arriva alle note di caffè). Quando è fresco, in bocca è solubile e pastoso con note vanigliate; dopo parecchi giorni è più compatto ma sempre di eccellente masticabilità.
CALABRIA
Pane con la giuggiulena: ossia pane al sesamo. Giuggiulena o giurgiulena sono i nomi con cui il sesamo è chiamato in provincia di Reggio Calabria, chiaro retaggio del dominio saraceno che ha interessato quest’area tra il IX e XI secolo d.C. In lingua araba infatti questa spezia prende il nome di giulgiulan.
L’impasto delle pagnotte, dalle forme più varie, è fatto con farina di grano duro, acqua, sale, lievito naturale e di birra. Dopo la prima lievitazione si aggiunge altra farina, dopodiché la pasta viene tagliata e formata in pezzature di circa 500 grammi ciascuna, la superficie viene cosparsa abbondantemente di semi di sesamo, e dopo la seconda alzata si procede alla cottura.
SICILIA
Pane nero di Castelvetrano: celebre in tutta la Sicilia, si impasta miscelando due farine, quella di grano duro siciliano e quella ricavata da un’antica varietà di frumento locale, la timiìa, entrambi integrali e molite con macine a pietra naturali. Gli altri ingredienti sono acqua, sale e lievito naturale. Dopo aver lievitato a lungo questo pane è cotto in un forno a legna, ma non a fuoco diretto. Una volta spente le fiamme il forno viene ripulito e il pane messo nel forno caldo a cuocersi.
La forma è quella di una pagnotta rotonda, la crosta è dura e color caffè (cosparsa di semi di sesamo), la pasta morbida e giallo grano. Al palato spiccano la delicata dolcezza, quasi di malto e di mandorla tostata che si uniscono al leggero sentore aromatico del legno di olivo.
SARDEGNA
Coccoi: quella dei coccoi, pane artistico da semola di grano duro, lievito madre, sale e acqua è un’espressione quasi commovente dell’arte bianca che in Sardegna si riserva ai grandi avvenimenti, come nel caso del pane della sposa.
Un’arte antica, tramandata da madre in figlia, proprio come il corredo per la panificazione, composto da su strexu ‘e fenu o de scraria (cesti in fieno o in asfodelo di varia misura per pulire e selezionare le farine), su strexu ‘e terra (contenitori in coccio), teli e panni per coprire il pane e l’indispensabile forbice per realizzare is pitzus, cioè i bordi esterni, e il coltellino da incisione. Secondo Maria Uggias, tra tutti i pani nuziali sardi, il più spettacolare è senza dubbio il “su crispesu” di Orrolì. Molto elaborato, nella forma, ricorda un tabernacolo o una costruzione barocca.
[Crediti | Link: Repubblica, Dissapore. Immagini: Flickr/Totkat, Flickr/Luigi Zago, Flickr/CindyStarBlog, Flickr/Alimentari del Po, Trentino Wellness Blog, Flickr/Valeria Necchio, Turisti per caso, Flickr/Danilo, Flickr/Geraint Roberts, Che Zuppa, Flickr/Brenda Pederson, Flickr/Flavio, Domenico Federico, Scatti di Gusto, Flickr/VilipinoMT, Flickr/Teresa De Masi, Flickr/Luigi Strano, Flickr/Giuseppe Cosentino, Flickr/Massimo C]