Mi metterò volontariamente in un vicolo cieco, cercherò di trovare una risposta plausibile a un eterno dubbio. Quando è lecito al ristorante rimandare indietro un piatto? A tavola siamo il popolo dei saccenti, bastano pochi post su Instagram con mille hashtag per scatenare l’inferno, un tweet, uno pseudonimo, una recensione su Trip Advisor, un sopracciglio alzato.
Io mi sono data un’unica regola, non mando indietro un piatto solo perché me lo aspettavo diverso. Lo faccio tornare in cucina solo se l’errore è insanabile. Provo a fare degli esempi di “insanabile”.
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Cottura diversa da quella richiesta.
Il caso più banale è quello della carne. Chiedo una carne poco cotta, ricevo una suola di scarpa. Rimando indietro.
Troppo sale.
Al poco sale si rimedia, al troppo mai. Se arriva un piatto evidentemente salato, rimando indietro.
Casi estremi, ingredienti proibiti e ospiti nel piatto.
Se chiedo per motivi di allergia o di gusti di togliere un ingrediente dalla ricetta originale e quell’ingrediente è stato invece inserito, rimando indietro. Di ospiti indesiderati non ne ho mai trovati, ma ovviamente quello più che essere insanabile è intollerabile.
Se siamo concordi sui banali esempi di insanabile, passiamo agli esempi borderline, quei casi di cui potremmo discutere settimane. I casi sottoposti all’imprescindibile parametro della soggettività o della tolleranza.
Vi racconto del mio pranzo di ieri.
In pausa pranzo vado a mangiare con i colleghi in piccolo ristorante in zona. Niente di eccezionale, piatti che si replicano settimanalmente come i menù di mia madre, ma ingredienti buoni e freschi, niente insalatona stagionata o panini rinsecchiti.
Ordino tonno scottato e insalata. Arriva il tonno, fuori scottato dentro rosa. Perfetto, se non fosse che dentro è freddissimo, quasi congelato. Chiamo il titolare che serve anche ai tavoli e che ormai conosco, dico: “Scusami, ti posso chiedere di farlo cuocere ancora un po’? Dentro è freddissimo, quasi congelato.” Risponde: “Noi lo serviamo così”.
Io: “Sì, capisco, ma è proprio congelato.” Lui cerca ancora di convincermi che così è davvero molto buono. Io vorrei solo tagliarne un pezzetto e farglielo assaggiare o farglielo toccare con le dita o se insiste ancora, alzarmi e andare via. Alla fine lo riporta indietro con la stessa faccia che faccio io quando qualcuno mi accusa di aver cotto una pasta troppo al dente. Lo sguardo significante ed estremo di chi pensa “non capisci niente di cibo”.
Altro esempio di vita vissuta.
In un piccolo ristorante di Milano ordino una pasta cacio e pepe. Piatto ingannevole assai complesso da trattare. Arriva una pasta all’olio con sopra una grattata di parmigiano e del pepe. Non lo rimando indietro, ma alla fatidica domanda “tutto bene?” rispondo che la pasta era buona, ma che non c’entra niente con una cacio e pepe. Espressione rarefatta, sguardo perso nel vuoto, giustificazioni varie e una risposta buttata lì con risolutezza “noi qui la facciamo così”. Nessuna risposta da parte mia.
Chissà se al suo ritorno a casa o in cucina dallo smartphone il cuoco avrà verificato la ricetta della pasta cacio e pepe? La risposta è facile. No. In quel ristorante ci sono tornata spesso per altri piatti e quando i miei commensali, seppure avvertiti l’hanno in seguito ordinata, lei era rimasta la stessa di un tempo: una pasta all’olio, parmigiano e pepe.
Racconto numero 3 di vita vissuta.
Ordino un tiramisù in un ristorante dopo una cena davvero buona. Era inavvicinabile, strano anche. Non lascerei un tiramisù neanche sotto tortura, in quel caso, abbandono. Alla domanda classica del cameriere attento di fronte al dolce non consumato “qualcosa non andava?”, racconto cosa non andava.
Esce la cuoca dalla cucina e mi sottopone a un interrogatorio, benché molto gentile. Mi racconta che quel tiramisù era frutto di una ricetta che stava mettendo a punto per non utilizzare lo zucchero raffinato, ma che nessuno le aveva mai detto perché non era buono. Ci torno poche settimane dopo e alla fine della cena, mi arriva un tiramisù senza che io l’avessi ordinato. Era buono, cambiato, diverso. Ci avevano riprovato, la ricetta era quella giusta.
Alla fine dei casi di vita vissuta, le domande sono tante, ma più di tutte una.
Dov’è il confine che ci separa dall’essere dei clienti rompiscatole da clienti che si lamentano in modo lecito? E come ci aspettiamo di essere trattati al momento della richiesta?
Con una solerte risposta “ma noi qui lo facciamo così”, liquidati da un’occhiataccia come quando chiediamo la fiorentina ben cotta o ci basta essere ascoltati?
Abbiamo bisogno delle vostre esperienze per rispondere davvero alle domande. Avete mai rimandato indietro i piatti a ristorante? Quando e perché? E come hanno reagito i ristoratori/camerieri/proprietari?