Ora che anche mia mamma ha riposto in soffitta la collezione de “I tuoi menù” acquistata con sudor di rate in edicola negli anni Ottanta perché “è troppo mainstream”, mi sembra che sia giunto il momento di fare il punto sulle nostre problematiche relazioni con il cibo.
E se, come pare, siamo davvero diventati tutti FOODIE (?!), meglio mettere nero su bianco la fisionomia dei diversi gastrofanatici che almeno una volta nella vita (foss’anche davanti allo specchio..) ognuno di noi ha incontrato.
Per la serie: se li conosci li eviti. Aggiungete in coda, prego, i vostri gastrotipi.
1. Il viaggiatore.
Arriva in un posto nuovo e fruga come un segugio di razza mercati ed enoteche prima ancora che entrare nelle chiese segnalate dalla guida. Non solo. Spesso e volentieri SCEGLIE la sua meta in funzione del cibo. Tutto sommato, è uno sgamatone: ha misurato palmo a palmo la penisola a caccia di eccellenze, conosce ogni produttore di vino con un fatturato superiore ai mille euro annui, si commuove quando sente parlare di biodiversità. E potrebbe descrivervi a occhi chiusi il sapore del clafoutis di ciliegie che ha assaggiato quella volta da bambino nella pasticceria più defilata del più defilato vicolo parigino.
2. Il filieracorta.
Questo tipo di foodie è la – più o meno diretta – emanazione del contadino vecchio stampo, o della massaia tuttofare. Lo riconoscete anche da una certa tendenza a vestire panni semplici, tipo le camicie di lino e i maglioni d’alpaca. D’estate, mai senza Birkenstock. Un po’ alpestre leggermente maleodorante e un po’ borghesotto precisino, è uno che smania per fare tutto da sé. Cura come un neonato il lievito madre, si rimbocca dovizioso le maniche della suddetta camicia fin sopra i gomiti per passare i pomodori ad agosto, è gran cercatore di funghi e more di rovo, odia il “biologico” perché pensa sia un sistema lucroso e fintamente etico.
3. Il sofisticato.
Occhiali sul naso e barba perfettamente rasata, fa scorrere gli occhi sulle vetrine di Ladurée come dovesse apprestarsi a compiere una liturgia. Ama il bonton, i piatti microscopici con nomi chilometrici e/o impronunziabili, non dice mai “sale” ma sale rosa dell’Himalaya, sale in fiocchi di Camargue ecc. ecc. In pausa pranzo, come minimo, va a prendersi un bagel espresso con il salmone selvaggio. Non chiude mai la valigia senza aver preso un papillon e dei gemelli, odia il Vinitaly, i reality di cucina e in un luogo recondito della propria magone tiene appeso un dagherrotipo di Antonella Clerici con cui ogni mattina si interfaccia armato di freccette.
4. L’instagrammer seriale.
Di età indefinibile dato il look giovanilista: potrebbe averne 28 come 40, cura il suo aspetto a colpi di e-commerce, legge blog fighi di cucina, predilige Vimeo a Youtube e non di rado si sofferma sulle pagine iconoclastiche di Vice. Appena si siede al tavolo (di design) di un ristorante alla moda inizia lo stillicidio dei suoi scatti. Non è un ghiotto, lavora di pollice più che di papille gustative, ha come minimo un account su Flickr e uno su Pinterest, guarda programmi di cucina internazionali. Non è escluso un passato, anche incidentale, di rapporti problematici col cibo (ex ciccione, ex goloso, ex cuoco in una mensa scolastica, ex visitatore notturno di frigoriferi, ex consumatore di junkfood).
5. Il collezionista.
Sugli scaffali, 9 su 10 sono libri di cucina, scritti di proprio pugno da chef internazionali oppure monografie tipo “La pasta choux”. Alle pareti di cucina rami di ogni forma e utilità. Nei cassetti un’utensileria che meriterebbe di stare in una teca: pelatopinambur, denocciolatori a energia solare, barattolini monodose di spezie acquistate con minuzia da antiquario nei bazar di tutto l’orbe terraqueo. Questo tipo di foodie è un autistico col grembiule, maniacale come un Annibal Lecter dei fornelli. Arguto, spesso sapiente, può essere più pesante di una parmigiana di peperoni. Alla larga.
6. Il gastrologo.
Un po’ sulla flasariga del fotografo seriale, l’oratore gastrofanatico ha una relazione voyeuristica con il cibo. Parla di cosa ha mangiato e di cosa mangerà più volentieri che di cosa sta mangiando – non è un critico. E ne parla con lo sguardo appannato di chi ha appena visto un video hard, con la giaculatoria perfetta ma un po’ sconclusionata di uno che si è perso nel loop della sua stessa ghiottoneria. Ogni tanto, butta là qualche accostamento strano, sinestetico tipo “un retrogusto di stoffa” o “quel vago sentore di erba bagnata”. Più sentimentalmente coinvolto del patito di Instagram, è bello, alla fin fine, vederlo commuoversi quando rispolvera le sue madeleines dell’infanzia.
7. Lo scenografo.
Lui, cucina. Anzi, come ama dire, “sperimenta”. E propone – o propina – ai suoi convitati i risultati degli esperimenti. Ma lo fa con impegno, grazia e caparbietà. E’ pretenzioso senza pensare di esserlo quando impiatta capesante in crosta di qualcosa, vellutate di tuberi mai sentiti e riduzioni alle spezie indocinesi. Però indulge, un po’ troppo, sul voler mettere sempre qualcosa “in cima”: e allora i suoi piatti si trasformano in sfide alla forza di gravità, in turrite babeli di julienne di sedano rapa, in pinnacoli di filangé di porro in tempura.
[Crediti | Immagine: Foodbeast]