“La via per Berlino” è un racconto di Silvia Ballestra del 1991, che solo un anno più tardi è diventato un romanzo dal titolo “La guerra degli Antò”, da cui poi è stato tratto l’omonimo film del 1999 per la regia di Riccardo Milani. «Verso le diciannove di ogni sera, il nostro Antò finiva di cenare; (in genere mangiava cose tristi: salumi da poco prezzo, pizze congelate, paste al pesto o condite con sughi già preparati. Cenava solo, naturalmente».
La storia racconta l’epopea di Antò Lu Purk e dei suoi amici Lu Zombi, Lu Zorru e Lu Mmalatu. Tutti e quattro punk, tutti e quattro di Montesilvano (PE), tutti e quattro con lo stesso nome: Antonio per l’appunto. Lu Purk è “quello che se ne va” da Montesilvano, dall’Abruzzo, da mamma, nonna e zii alla volta di Bologna, mentre gli altri decidono di restare perché, come dice Lu Zorru in una scena: «Ci vuole coraggio ad andare, ma ci vuole anche coraggio a restare a Montesilvano!»
Ed è dalla scena in cui il protagonista, zaino in spalla, dice addio alla famiglia, che cominciamo il nostro viaggio icono-gastronomico di Antò Lu Purk e della pasta al pomodoro.
Ne “Le Verità nascoste”, thriller del 2000 con Harrison Ford e Michelle Pfeiffer, gli scenografi hanno cambiato il colore delle pareti della casa in cui si svolge la vicenda, rendendole sempre più scure e cupe per sottolineare l’ascesa di tensione e suspence della storia. Credo che una cosa analoga sia stata fatta con “La guerra degli Antò”, ma al posto delle pareti di una casa, è compito di un piatto di pasta essere testimone della via crucis di abbruttimento morale ed emotivo del protagonista. Sì, perché il diciottenne pescarese annuncia la sua partenza proprio nel momento in cui la sua famiglia è tutta riunita attorno ad una tavola imbandita. La madre ha appena appoggiato al centro del tavolo, qualche chilata di meravigliosa pasta al sugo di pomodoro (tortiglioni, se non erro) fumante, ma nessuno la mangia. Non la mangia Lu Purk, non la mangia la madre troppo impegnata a piangere, ne’ il padre iracondo, ne’ lo zio Ciro indignato e un po’ fascista e manco la sorella o il cognato… Quell’invitante, materna e genuina pasta ben condita, bella da vedersi e sicuramente da gustarsi, rimane intonsa a mo’ di sfregio dello spettatore.
Antò Lu Purk sdegna la pastasciutta materna e se ne va… dove? A Bologna. Viene accolto da un compaesano che divide l’appartamento con una fauna variopinta e promiscua di studenti. E Antò, quasi con vergogna, fa dono delle salsicce e del vino abruzzese, con cui la madre si era premurata di imbottire il suo zaino di migrante. Anche in questa occasione notiamo che Lu Purk non spezza il pane, non versa il vino e non rende grazie… lascia che gli altri mangino l’ultimo appiglio con quella che era la sua vita prima di.
Le prime righe che abbiamo letto, raccontano le abitudini alimentari del periodo bolognese di Antò detto Lu Purk. Periodo bolognese egregiamente descritto da una scena specifica del film. Al nostro, riunito con gli altri coinquilini dell’appartamento bolognese, viene dato un piatto di pasta scondita a cui viene aggiunta, direttamente dalla bottiglia, una sbrodolata di salsa di pomodoro così come il salsificio l’aveva concepita. Nessuno si è premurato di fare un soffritto o almeno, di scaldarla o condirla. Niente di tutto ciò… pasta scolata che pare pure un po’ scotta e salsa di pomodoro industriale. Senza neanche una timida spolverata di parmigiano. Il tutto consumato in un piatto adagiato sopra le ginocchia, davanti alla televisione accesa.
Livello di abbruttimento + 50.
Ad Antò Lu Purk sale un po’ di nostalgia. Nostalgia che esplode la notte di Natale. Ad Antò manca Montesilvano, gli mancano Lu Zorru, Lu Zombi e Lu Mmalatu e persino le gemelle Treves, forse, ma senza ombra di dubbio, sta pensando a quella pasta che non ha mangiato il giorno in cui ha lasciato la famiglia. Eppure non si fa abbattere, anzi, alza il tiro… abbandona Bologna e parte per il nord. Parte per Amsterdam (Berlino, nella prima versione del racconto) dove il livello di abbruttimento morale e gastronomico raggiungono soglie inimmaginabili.
La scena clou del periodo olandese si verifica nel momento in cui Lu Zorru (in fuga in quanto disertore, era stato arruolato per la guerra in Iraq) lo raggiunge nella sua micro-stanza ad Amsterdam. Lu Purk piange di gioia e commozione nel vederlo. È solo, triste e zoppo per via di un incidente sul lavoro e cosa faranno mai, due punk riuniti in terra straniera per festeggiare il ricongiungimento? Fanno gli spaghetti.
Orribili spaghetti collosi, scolati nello stesso lavandino in cui Lu Purk si lava la faccia, i denti e forse ci fa pure il bidet. Pronti per essere conditi con dell’ignobile salsa fiamminga già pronta, se non fosse per… il fuoco! Salvifico e purificatore che incendia la cucina e la micro-stanza olandese, dove si stava consumando tale crimine ai danni dell’umanità tutta. Crimine paragonabile, forse, all’abitudine tutta stelle-e-strisce di condire gli spaghetti con il ketchup, ma per fortuna il fuoco – dicevamo – impedisce tale vergogna.
A seguito dell’incidente i due Antò verranno fatti rimpatriare. La Madre Patria. Fermiamoci a riflettere sul senso che questo, per due punk abruzzesi “contro tutto”, può avere. Non certo quello pomposo e retorico da stadio. Che cosa è allora “Casa”?
Lu Purk lo capirà grazie a quel fuoco che distrugge e riduce in cenere, fa tabula rasa degli orrori culinari e della sua desolazione emotiva. Fuoco, con cui la tragica storia della pastasciutta al pomodoro ne La guerrà degli Antò si conclude, grazie a Dio. Antò detto Lu Purk tornerà a Montesilvano. E non importa se ci sono le gemelle Treves, la cementificazione selvaggia della costa o la guerra in Iraq. Perché fuggire e soffrire, quando si può restare e lottare? Sì, si può essere punk anche a Montesilvano. E persino a Busto Arsizio. Persino seduti a tavola.
E in culo a tutte le gemelle Treves d’Italia.