“Voglio solo cucinare”, questo lo sfogo di Carl Casper, chef di Los Angeles con un coltello tatuato sull’avambraccio, alle prese con il titolare del ristorante, che pensa – ovviamente – più al business che ad assecondare l’ansia creativa dello chef alle sue dipendenze.
Nell’essere una commediola leggera e buonista, talmente buonista e cibocentrica che sembra essere stata sceneggiata da Julia Child, Chef – La ricetta perfetta (maddai, “La ricetta perfetta” proprio come quella di Dissapore?) ha una sottotrama che potrebbe far riflettere tanti del nostro settore. La storia è questa. [related_posts]
Uno chef mediamente famoso e apprezzato (Jon Favreau) riceve la programmata visita di un notissimo critico gastronomico (Oliver Platt) che dieci anni prima era stato piacevolmente folgorato dalla sua cucina.
Lo chef – un po’ seduto sulle posizioni guadagnate – vorrebbe stupire il critico con un menu denso di creatività, ma si scontra con il proprietario del ristorante (Dustin Hoffman) che gli impone di proporre allo speciale ospite il menu tradizionale (“Se vai al concerto degli Stones vuoi sentirli suonare Satisfaction” gli intima).
Succede però che i grandi classici dello chef, tra cui il tortino al cioccolato con cuore fondente, non convincono il critico gastronomico il quale affida la sua stroncatura al sito Eater e a Twitter. Dopo qualche reciproca offesa in forma di tweet, tra lo chef impacciato alle prime armi sui social e lo scafato critico gastronomico, il primo viene licenziato e deve pensare a come reinventarsi.
Non lo farà seguendo le indicazioni di una scaltra PR che gli consiglia di partecipare a Hell’s Kitchen, ma sceglierà – con l’aiuto di figlio, ex moglie ed ex sous chef – di aprire un food truck nel quale può finalmente cucinare quello che sente dentro: sandwich cubani.
Attraversano l’America preparando panini e diventano un fenomeno “social” grazie al live twitting del figlio che posta immagini e rotta del food truck. I sandwich sono talmente buoni da convincere il critico gastronomico, che ha venduto il suo blog ad AOL per 10 milioni di dollari e dunque con un discreto gruzzolo da parte, a investire sullo chef e aprire insieme un ristorante di specialità cubane.
Vi tralascio l’evolversi delle vicende sentimentali dello chef, ma le potete ben immaginare.
Al di là della storia e del finale un po’ banale, il film offre certi spunti sui quali val la pena riflettere sotto l’ombrellone, e che secondo me sono questi:
Chef e Ristoratori. Fare lo chef o essere imprenditore del proprio ristorante, sono due mestieri completamente diversi. Nel bene (avere la completa libertà delle proprie scelte) e nel male (avere la completa responsabilità delle proprie scelte). La critica dovrebbe, in qualche modo, tenerne conto?
Chef e Critici. Superato lo stereotipo del critico cattivone che gode nel stroncare un ristorante, quel che si vede nel film è un critico in fin dei conti partecipe del grande show mediatico. Sarà lui stesso a dirlo allo chef “É un gioco” (di ruoli, ovviamente), e sarà proprio grazie alla stroncatura del critico che il nostro chef diventerà una twitstar.
Abbastanza melensa la scena del litigio al ristorante (che diventa un video virale) in cui lo chef da’ dell’incompetente al critico per non sapere come si cucina un tortino al cioccolato dal cuore fondente, accusandolo di aver polverizzato con un colpo di penna le sue tante fatiche. Rapportarsi ai giudizi di un altro non è mai facile, lo chef ne esce come un isterico dall’ego ipertrofico che non sa gestire le critiche negative.
Ricevere critiche negative, spesso immotivate o altre volte motivatissime, capita a tutti in tutti i mestieri, non certo solo agli chef, non credete?
Chef e recensioni. La presenza del critico era cosa nota, pure l’ex moglie dello chef era a conoscenza del fatto che il critico gastronomico sarebbe stato nel locale quella sera. E dunque al critico viene riservato un trattamento speciale, come avviene quasi sempre anche nel mondo reale. Anche questo fa parte del gioco di ruolo?
Chef e social. Nella sfortuna (stroncature virali e post maldestri) e nella fortuna (sapiente uso di twitter nella promozione del food truck) i migliori attori non protagonisti di questo film sono i social network. Che nel futuro del cibo ci siano meno padelle e più smartphone è una eventualità che mi inquieta e mi intristisce. A voi?
Chef e cibo. Se gli chef, frustati dalle incomprensioni con il proprietario del locale e dall’ansia da prestazione nei confronti della critici, affidano l’autorealizzazione di sé a un informale, verace e popolare sandwich cubano (“piacerà alla gente?” Chiede Casper alla sua ex moglie. “Perché non dovrebbe piacere, è vero cibo!”, risponde lei) cucinato a bordo di un lurido foodtruck e non in una scintillante cucina, perché mai noi dovremmo continuare ad andare nei loro ristoranti?