Le parole sono importanti diceva Nanni Moretti anni fa, schiaffeggiando una giornalista dal linguaggio modaiolo. E subito penso che ci vorrebbe anche oggi un moralizzatore del linguaggio, che impedisca fisicamente a chiunque di dire cose come “Ho bevuto un cocktail commovente“, “Ho mangiato una frittura da amplesso“.
Per oggi ci accontentiamo di uno scienziato del linguaggio che faccia le pulci al modo con cui parliamo. Si chiama Dan Jurafsky, è professore di linguistica alla Stanford University (sì, quella del discorso di Steve Jobs) e gli voglio molto bene.
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Jurafsky ha applicato il data journalism a elaborati software di scrittura per spiegarci come possiamo prevedere i prezzi di un ristorante dalle parole presenti nel menu, e come cambia il nostro vocabolario gastronomico rispetto ai diversi contesti.
Addentiamo i caratteri principali del suo fluviale studio e sintetizziamo qualche categoria. Scoprite se vi ci ritrovate.
Enfatica, tragica, prolissa e sessuale: il caso dell’alta ristorazione.
Partiamo dai critici gastronomici o comunque da chi sente il che il mondo necessiti di conoscere la propria opinione su come hanno mangiato in un ristorante. Chi scrive una recensione di uno stellato usa spesso un registro iperbolico; tragico se l’esperienza è negativa.
L’indicatore perfetto del trauma è il plurale maiestatis. Il vostro dolore è il dolore di tutti: non ci si lamenta tanto del cibo, quanto del trattamento: “siamo stati i-gno-ra-ti”, “nessuno di noi tornerà mai più in quel ristorante”. Aggiungerei anche “Cracco non è venuto nemmeno a salutarci”.
I ristoranti di alto livello spingono all’uso di un vocabolario ampolloso e desueto. Dominano parole come “commisurato”, “discreto”, “sontuoso”, vestibolo”. Le recensioni sono solitamente verbose e prolisse come una reprimenda di Travaglio, perché le persone vogliono dimostrare di essere educate e acculturate.
Quando la recensione è positiva, si tende a usare metafore sessuali. La pasticceria è sempre da orgasmo, il foie gras sensuale e peccaminoso; una torta sarà sempre morbida e voluttuosa e la pancia di maialino spinta e sexy.
Risparmiare è rock e genera dipendenza.
Le buone recensioni di ristoranti economici sono zeppe di metafore che ricordano le droghe e le dipendenze: “forse la cioccolata nei loro biscotti contiene il crack”, “ho un disperato bisogno di questa pizza”, “non riesco a smettere di mangiare le loro alette di pollo”. Da noi potrebbe essere: “Se non mangio pane e Nutella do fuori di testa”.
Perché questa differenza? Ci vergogniamo di mangiare il cibo economico? A quanto pare paragoniamo il cibo alla droga quando ci sentiamo in colpa per aver ecceduto nel junk food: dando la responsabilità al cibo, ce ne laviamo le mani, e ci distanziamo dal peccato. Della serie: non è colpa mia, non posso resistere a spararmi un altro hamburger.
Lo studio dimostra anche che sono più spesso le donne a usare metafore legate alle dipendenze, dimostrando che sono più soggette alla pressione di dover mangiare cibo sano e conforme ai diktat delle basse calorie.
Tutto quello che devi sapere su te stesso e il mondo che ti circonda è scritto sul menu.
Lo sappiamo bene, mai sottovalutare la portata simbolica di un menu: sono lo specchio della psicologia dello chef, del ristorante e (esageriamo) anche della società. La ricerca di Jurafsky, ha studiato migliaia di menu dei ristoranti degli Stati Uniti scoprendo come si possa sapere quale sarà il conto finale leggendo attentamente le parole usate sul menù.
Anche questa volta il paradigma è lo stesso: più caro è il ristorante, più fantasioso sarà il menù. Le carte che contengono parole straniere ostiche (è inutile: “tonnarelli” pronunciata da un americano mi farà sempre sbellicare), sottolineano il livello culturale della persona che scrive il menù, quindi, per estensione, del cliente.
Si scopre anche che i menù più cari sono più corti e meno espliciti. Magari ci campeggiano cose come “Esegesi di un granchio”. OK, questa me la sono inventata..
Per contrasto, i menu verbosi dei ristoranti medi, sono pieni di aggettivi come “fresco”, “ricco”, “leggero”, “croccante”, “tenero”, “dorato”. Le definizioni positive ma che rimangono sul vago – come delizioso, gustoso, saporito – sono, invece, prerogativa dei ristoranti più economici.
Questo perché i ristoranti d’alto livello danno per scontato che i clienti considerino il loro cibo fresco, croccante e delizioso. Mentre gli aggettivi a profusione usati nella media ristorazione sarebbero causati da un complesso d’inferiorità, solo i ristoranti meno pretenziosi, dove può esser messa in dubbio la qualità, hanno bisogno di sottolineare la bontà del cibo proposto.
Il gran finale: quella fantastica ipnosi chiamata etichetta.
Poi, d’improvviso, lo studio mi riporta alla mia infanzia. Uno dei miei piaceri proibiti, mentre mangiavo le patatine in busta, era leggere il retro del pacchetto. Quelle descrizioni favolose mi facevano assaporare meglio le patatine, che si trasformavano subito da riserva di grassi in cibo afrodisiaco.
Cosa fanno Jurafsky e la sua cricca? In un altro studio, il professore e il suo studente Josh Freedman hanno analizzato le etichette dei pacchetti di patatine fritte. Come per le recensioni, più si alza il prezzo del prodotto, più si alza il tono del linguaggio usato.
Hanno anche scoperto che sulle confezioni delle patatine più costose sono soliti fare più comparazioni (“meno grassi”, “le migliori in America”) o negazioni (“non fritte”).
E, infine, meraviglie della scienza, hanno calcolato che le patatine in questione costano 5 centesimi in più per ogni “no” aggiunto sulla confezione.
Vogliamo aggiungere qualcosa?
[Crediti | Link e immagine di copertina: Financial Times]