Per pubblicizzare il suo ultimo romanzo, lo scrittore Antonio Scurati attacca gli chef e il culto culinario. Credevate che la crisi del modello occidentale di civiltà e sviluppo fosse rintracciabile:
— nell’aumento della povertà,
— nello sfruttamento,
— nella corruzione,
— nella complessità degli equilibri internazionali,
— nelle differenze economiche,
— nelle derive speculative dell’economia finanziaria,
— nel riscaldamento globale e nell’inquinamento,
— nella dipendenza dalle forme energetiche,
— nel giocare a Ruzzle e nell’usare il balsamo oltre che lo shampoo?
Non è così: siete banali, vecchi, manichei e anche un po’ ignoranti. Il motivo del declino occidentale è tutto nel trionfo dell’enogastronomia sulle arti liberali. No, non è uno scherzo, ma è l’esternazione di Antonio Scurati in un’intervista per La Stampa in cui si cruccia (eufemismo) della moderna dittatura degli chef. Lo sgomento di Scurati è invadente il giusto, sufficiente da sentire l’urgenza di farne un romanzo incentrato su uno chef letterato e filosofo.
Stupido io a pensare che la modernità – tra le sue infinite contraddizioni – ci avesse liberato di quella cosa ampollosa chiamata Cultura Alta e invece c’è ancora chi abusa di dialettica apocalittica, evocando demoni e barbari e sostenendo cose tipo “la cultura intellettuale che abdica a se stessa e si inginocchia alla cultura materiale“.
Eppure Scurati, oltre che scrittore, è anche professore di Teorie e tecniche del linguaggio televisivo, un campo dove non sono ammesse usualmente classifiche di pregnanza culturale. Forse a furia di interpretare i mutamenti sociali attraverso le onde catodiche si finisce per patire la perdita di un’adeguata classificazione di ciò che è vera cultura. Così parte l’intemerata contro i cuochi, la gastronomia e il culto culinario.
Però, non per sminuire il cibo – che Dissapore definisce non a caso sacro – ma quello degli eccessi divistici dei cuochi e “l’affettazione del salame che diventa un atto culturale” mi sembrano problemi dai confini sottili. O al massimo un indicatore culturale dei nostri tempi, ma frenerei un pochino sulla crisi della civiltà, sulla “supremazia gastronomica come indice dell’immalinconimento dell’uomo europeo”, e sul fatto che questi siano “segni evidenti del disagio mentale della società occidentale“.
Ma visto che Scurati parla anche di socialismo e lo imbarazza “l’intellettuale che si genuflette di fronte alla ribollita” potrebbe essere utile ricordargli che le rivoluzioni non hanno vinto proprio perché perdenti dal punto di vista materiale. Filippo Bertazzoni finì in un gulag perché Stalin non capì il gorgonzola. Il povero Filippo, da antifascista simpatizzante per il movimento bolscevico, partì nel 1932 per Kerc, in Crimea, patria del comunismo. Lì inizio a fare il “formaggio con la muffa”. Dopo un anno di successi, arrivarono le zelanti e idealiste guardie della rivoluzione. Lo accusarono di “sabotaggio” e lo spedirono in campo di concentramento. Può essere utile ricodarlo per tornare con i piedi per terra e ricordare qualche dittatura un po’ più severa di quella degli chef.
Ma tornando a noi, non sarà responsabilità anche delle arti liberali, leggi i romanzieri italiani, se oggi come oggi l’editoria trae ossigeno dai libri culinari? Se Cracco e il suo scalogno, Gordon Ramsay, Nigella Lawson e Benedetta Parodi hanno la meglio sui romanzi di Scurati?
Tanto alla fine, come scriveva Jack London, i metafisici come lui, i cantori dello spirito e dell’immateriale, “sono tutti pronti a tornare sulla terra all’ora di pranzo“…
[Crediti | Link: Mondocibo, immagine: La Stampa]