Da ‘stamattina prima del sorgere del sole, sto cercando di ricordarmi dove è nata la faccenda del panino caldo. Perché da qualche parte è nato, e nei miei ricordi appannati vedo le prime paninoteche verso la maggiore età: diciamo alla fine degli anni settanta. Fu allora che comparvero per la pima volta le fettasse di pane americano abbrustolito ma ancora con companatico umano: chessò, la salsiccia con la peperonata, prosciutto cotto e formaggio, tonno e pomodoro. Poi la fantasia dei paninari (no, non quelli del famoso movimento milanese) sbocciò e ci regalò vivide esperienze, con la majonese e la salsa rosa dappertutto, l’importante che alla fine ci fosse il colpetto di piastra a mondare ogni peccato.
Per la verità i panini esistevano anche prima: ma nessuno ci aveva ancora insegnato a scaldarli. Anche perché il panino, quello vero, al caldo soffre: i buoni salumi della nostra amata e tanto vessata terra stanno bene dentro enormi falde di pane rustico, anche in purezza. Ma davvero una bella biovazza di pane sciocco imbottita di copiosa finocchiona ha bisogno d’altro che un fiasco di chianti per regalarci la felicità? Non certo una salsa né un formaggio per buono che sia, non certo una sfiammata di calore che ne franga i lardi e ne ammorbi la croccantezza. O una rosetta ripiena di San Daniele? O un filoncino imbottito di Crudo di Parma ben stagionato?
Ahi lasso! [cit.], oggi se partite per la gita con i PEU (piccoli esseri umani) va bene il panino, ma che sia fatto all’ultimo minuto, con pane fresco e un solo ingrediente in purezza. Due, nei casi borderline: ma prima scrivete qui sotto e chiedete il Certificato di Mangiabilità.