E’possibile spiegare agli americani come si fa la vera pizza napoletana? Loro, abituati a quei dischi di pasta formato extra large, e che solo loro sono capaci di ricoprire con maionese, burro di arachidi e ananas tutto insieme e avere pure il coraggio di chiamarli “pizza?
Bene, se c’è qualcuno che può insegnare qualcosa a questi e altri stupratori seriali della vera pizza napoletana, è sicuramente Enzo Coccia.
Non un nome da poco. E’ sua, a Napoli, una delle migliori scuole di pizza napoletana, dove tiene corsi mensili e dove anche il giornalista americano Adam Platt si è recato per apprendere, in una sola settimana, i segreti della vera pizza.
Lì, Platt ha fatto la conoscenza con gli aiutanti di Coccia, vale a dire Davide Bruno, capace di far piangere agli allievi lacrime amare davanti al forno, come il più severo dei coach, e Michele Triunfo, della bella età di 81 anni –ottantuno– di cui quasi 70 impiegati a fare e vendere pizze in giro per Napoli, avendo lavorato nelle pizzerie di Napoli dall’età di soli 12 anni.
E’ lui che dà le indicazioni più colorite agli studenti: “Morbida, la pasta deve esser morbida, come il sedere di un bimbo!”, per poi arrendersi, davanti agli obbrobri degli studenti, con una sonora risata e una scenografica alzata di mani.
Platt ha descritto su Bloomberg i preziosi insegnamenti di Coccia: l’impasto deve essere lavorato con gentilezza, in una sorta di “danza delicata”, e poi deve essere suddiviso nei classici panetti, operazione che raccomanda di fare senza fretta, per non trasformare l’impasto in chewing-gum e soprattutto senza rovesciare litri di sudore nell’impasto: “Un buon pizzaiolo non suda nella pasta!”
Coccia, spiega Platt, non accetta più di quattro studenti al mese, anche italiani ovviamente: “con quindici persone per classe non si impara nulla – dice- E’ come rubare i soldi”.
E ci tiene che i suoi studenti, invece, anche quelli americani come Platt, imparino presto che molto di quello che negli Stati Uniti è associato al nome “pizza”, con la pizza napoletana ha poco a che fare: nessun sugo dolciastro, nessun additivo, nessun gusto nauseabondo di formaggio fuso indefinito, nulla di tutto ciò.
Nemmeno l’impasto. “la vostra pizza, a New York, è più un pane che una pizza – dice Coccia. Pesante, non lievitata, male impastata e cotta in forni terribili.
E’ tutto sbagliato”, dice mentre annusa del buon olio di oliva sicilano. “Annusa questo –dice al giornalista. Questo è olio. Certo, alcuni lo usano anche a N Y ma lì usano soprattutto olio di girasole , di palma, roba a buon mercato… schifezze!”
E le catene di pizza americane?
“Ah, Papa Giovanni, non me ne parlate! I miei studenti, dopo sole due settimane di corso, fanno pizze migliori di quelle”!”
Logico che Coccia veda come il fumo negli occhi questi templi della pizza “di serie”: suo padre era pizzaiolo, suo fratello ancora gestisce la vecchia pizzeria di famiglia a Napoli e lui stesso ha iniziato a vender pizze a 12 anni. Due decenni fa ha poi aperto, a N Y, la sua prima pizzeria “La Notizia”, e poi la seconda pizzeria.
Pizza apprezzata anche da Maurizio Cortese, critico gastronomico già autore di Dissapore, anch’egli presente al corso. “Forse a Napoli solo il 50 % delle pizzerie sono così buone, il 40% medio e il 10% sono eccellenti: ecco, Coccia fa parte di questo 10%”, dice.
E il termine pizza?
Il giornalista riesce a fare la conoscenza con lo storico Antonio Mattozzi, che spiega la probabile origine del nome “pizza”: potrebbe derivar alla parola greco bizantina “pita”, una sorta di focaccia.
La prima comparsa del nome “pizza” si ha nella Napoli di fine ‘700, quando i venditori ambulanti iniziarono a vendere una ruota di pasta ricoperta di semplice salsa di pomodoro ai marinai del porto: da qui il nome di “marinara”.
Solo durante l’’800 sono stati aggiunti condimenti pi ricchi e costosi, quali la mozzarella o il basilico fresco.
Intanto, in attesa dell’esame finale, gli insegnamenti di Coccia proseguono. “Cento ore è un tempo troppo breve per spiegare trecento anni di tecnica”, ammonisce, mentre i primi esaminatori si fanno avanti per assaggiare le pizze degli studenti, condite rigorosamente con pomodori San Marzano, sale (25 grammi precisi ogni 25 kg di pomodori), e mozzarella.
Per i curiosi, il corso di un mese alla Enzo Coccia Pizza Consulting di Napoli costa intorno ai 2.800 euro, che non includono il viaggio o di alloggio.
E alla fine, come si conclude l’esame per il nostro giornalista? “Ti do un sei per la cottura e un sette per la guarnitura”.
E la crosta del cornicione?
“Troppo croccante”, risponde Coccia. “Di sicuro, non riusciremmo a vendere questa roba qui a Napoli, ma potremmo tranquillamente venderla ai tuoi amici a New York”.
[Crediti | Link: Bloomberg, immagini: Luca Locatelli, Rossella Neiadin]