Nella reception dello stabilimento di Pastiglie Leone, a Collegno alle porte di Torino, campeggiano due tele che ritraggono Vittorio Emanuele II e la moglie Maria Adelaide d’Austria.
Il re posa con il petto in fuori e l’aria tronfia che si confà al suo status –anche se comunque la statura ridotta per cui era celebre si intuisce; la regina al suo fianco ha invece le spalle incurvate e uno sguardo desolato, nemmeno la tenuta regale è abbastanza per dissimularne l’aspetto dimesso.
“Ci credo che era depressa, con tutte le corna che il re le metteva” mi dice il Ragionere Guido Monero, 75 anni e netto accento torinese, che mi accoglie in visita all’azienda “Ho comprato questi due quadri ad un’asta a Sotheby’s nel 2005. Leone era fornitore della Real Casa e mi piaceva mantenere questo legame”.
La fortuna di Pastiglie Leone –nota per quei cilindretti zuccherini confezionati in scatolette di carta giallo e oro con fregi sabaudi– deve molto alla sua estetica deliziosamente vintage.
Ma bastano pochi minuti per realizzare che la potenza del marchio non dipende da uno sforzo consapevole di “immagine coordinata” (si dice così nei PowerPoint a Milano) bensì è più che altro l’espressione della natura dei proprietari: a partire dal vezzo di Guido Monero di presentarsi come “Ragionere” –un titolo già abbondantemente appannato ai tempi di Fantozzi– invece che come Presidente della società.
Brevi cenni storici: la fabbrica nasce nel 1857 (quindi compie 160 anni quest’anno), quando da una caffetteria vicino ad Alba il fondatore Luigi Leone si trasferisce a Torino. Nel 1934 Giselda Balla Monero, all’epoca proprietaria con il fratello Celso di un ingrosso dolciario che vendeva i prodotti Leone, rileva l’attività dagli eredi di Leone.
Nel 1943 la fabbrica brucia, viene ricostruita per riaprire nel ‘46. I lavori sono affidati a Mollino –“Eugenio, l’ingegnere, non quel matto del figlio” preciserà per tutta la vita Giselda, riferendosi a Carlo Mollino, che il recentissimo articolo del New York Times “I fantasmi di Torino” (che vi raccomando, perché è splendido) ha definito “architetto, designer e pornografo amatoriale”.
Dieci anni fa l’azienda ha trasferito uffici e produzione qui a Collegno, lasciando lo stabilimento storico di Corso Regina Margherita 242 a Torino, ma la facciata è rimasta dove stava, grazie alla protezione delle Belle Arti.
Indosso camice e sovrascarpe ed entro in laboratorio. Nell’aria c’è una nebbiolina leggera di zucchero a velo (mi rendo conto che possa sembrare una forzatura poetica, ma lo giuro).
Le Pastiglie Leone sono prodotte con un impasto a freddo: la prima fase prevede la miscelazione dello zucchero a velo con gomma arabica e gomma adragante, con l’aggiunta di acqua, succhi di frutta, oli essenziali, estratti e coloranti naturali a seconda del gusto.
In tutta la produzione si utilizzano le gomme, cioè resine, e non la gelatina alimentare. Oltre alle Pastiglie Leone, l’azienda produce anche caramelle “gommose”, che però appunto non chiamano “gelatine”. E non sono nemmeno gommosissime, quantomeno per chi è avvezzo alle consistenze delle caramelle in vendita al cinema che il Ragionere Monero chiama “molloni”, con chiaro tono dispregiativo.
Il gusto più venduto è ogni anno un testa a testa tra violetta e cannella, in terza posizione la confezione multigusto, per gli indecisi.
Sulla confezione c’è scritto “miste dissetanti”: Daniela Monero, figlia del Ragioner Guido e Direttore Marketing dell’azienda, mi spiega che le Pastiglie Leone sono nate come prodotto farmaceutico all’epoca in cui non c’era una reale distinzione tra farmacia e drogheria (appunto): in fondo gli stessi anni in cui i superalcolici venivano venduti come “tonico”.
Anche il termine “pastiglie”, è chiaro, si spiega nello stesso modo: se l’etimologia è quella di “impasto”, non è un caso che la parola abbia un sapore vagamente medico.
Una volta amalgamati con cura tutti gli ingredienti, l’impasto –che in questa fase ha l’aspetto di un gigantesca massa di dentifricio– viene trasferito in un macchinario che lo appiattisce e lo fa scorrere su un rullo dove gli antichi stampi in bronzo, marchiati con la “L” di Leone, creano la forma a cilindro.
Il procedimento è vagamente ipnotico, e credo che un canale Instagram dedicato potrebbe fare concorrenza a quei video più sedativi del Roipnol in cui le persone manipolano blob gelatinosi (se non sapete di cosa parlo, primo: congratulazioni; secondo: ecco qui).
C’è poi un successivo controllo qualità dove un operatore fa una cernita delle pastiglie per controllare che nel gruppo non ne finiscano di imperfette, o del colore sbagliato.
Siccome neppure i brand più vintage sfuggono alla tirannia delle novità di prodotto, ogni anno c’è un’edizione speciale delle Pastiglie: l’anno scorso è stato lo Spritz e quest’anno la Cedrata Tassoni – in pratica il George Foreman contro Muhammad Alì del vintage, un vero incontro tra pesi massimi.
Ultime due cose: primo, l’azienda non è abitualmente aperta per visite ma Turismo Torino ne organizza di tanto in tanto per il progetto Made in Torino – vale la pena fare un tentativo.
Secondo, congratulatevi con me per aver evitato in tutto il post le parole “Willy Wonka”, “Fabbrica di Cioccolato” e persino “Umpa Lumpa”.
Censurarmi in questo senso non è stato semplice, soprattutto quando sono stata invitata a sedermi su un pouf rosa pastello a forma di pastiglia Leone ipertrofica.