Carne dura, carne tenera. Capire il perché diventa sempre più complicato. Carne cruda che sembra tenera come burro ma una volta cotta diventa impossibile da masticare. Bistecche in padella che sudano manco fossero in un bagno turco e inondano le piastre di liquidi.
La differenza tra carne dura o tenera dipende dalla quantità di collagene.
Chiediamoci di cosa è “fatta” la carne. Il tessuto muscolare è composto fondamentalmente da 3 elementi: 75% acqua, 20% proteine di varia natura, 5% grassi e altre diavolerie. Le proteine sono miofibrille, sarcomeri e tessuto connettivo. A loro volta, le miofibrille sono agglomerati costituiti da due filamenti, uno spesso (miosina) e uno sottile (actina).
Difficile?
Mettiamola così, immaginate un fascio di spaghettini e bucatini arrotolati e sistemati all’interno di un cannellone. Ogni filamento intrecciato di spaghettini e bucatini si chiama sarcomero, tutto l’insieme prende il nome di miofibrille, mentre il cannellone stesso è il tessuto connettivo, quello che tiene insieme tutto.
Una definizione di bistecca è anche questa: una serie affiancata di miofibrille legate tra loro da “fasci crociati” di collagene. Certo, non suona molto romantica.
A incidere sul grado di tenerezza della carne è prima di tutto il tessuto connettivo. Non la sua quantità tout court, ma il numero di fasci crociati maturi che contiene.
Siccome negli animali molto giovani il collagene è riducibile e relativamente solubile in acqua, la carne è molto tenera. Con l’avanzare dell’età, questi fasci crociati maturano diventando più tenaci e perdendo in parte la capacità di dissolversi.
Il calore, poi, gioca un ruolo fondamentale, si ottengono risultati diversi a seconda delle temperature di cottura. Più saranno alte, più la contrazione delle fibre di collagene sarà rapida. In questo modo, le masse si comprimono strizzando l’acqua fuori dai tessuti. Il risultato è una carne molto compatta, asciutta e dura.
Esempio lampante della bestialità di una bistecca ben cotta che sarebbe più appropriato definire “mal cotta”. Per avere carne tenera bisogna partire come abbiamo visto in precedenza, da una carne ben frollata.
Ma anche dopo possiamo intervenire sulla tenerezza, attraverso delle tecniche che consentono di sciogliere il connettivo in gelatina, per esempio.
CONDIZIONAMENTO SOTTOVUOTO
Il sottovuoto si è diffuso per effetto del valore che aggiunge alla cottura. Sappiamo dai bolliti e dai brasati che una cottura prolungata rende la carne tenera al punto da sfibrarsi senza sforzo. Questo avviene perché il collagene si scioglie per effetto o degli enzimi, o, a temperature comprese tra i 50°C e i 55°C, del calore.
In aggiunta, i collagenasi, cioè, gli enzimi che passano la vita ammassando il collagene per renderlo docile, restano attivi se mantenuti sotto i 60°C per almeno 6 ore.
E’ dimostrato che dopo 24h di cottura sottovuoto a bassa temperatura, un pezzo di carne risulta più tenero del 72% rispetto allo stesso pezzo cotto nell’acqua che bolle per 1 ora. La chiave è personalizzare il tempo di cottura tenendo conto della quantità di collagene e del risultato che si vuole ottenere.
Il chimico Dario Bressanini, nel post dedicato al “Bollito non bollito” dello chef Massimo Bottura, mostra una foto interessante circa l’effetto del calore su diversi cubetti di carne.
Per una perfetta cottura della carne non possiamo prendere alla leggera la temperatura. Per esempio, inserire un circolatore a immersione nel sacchetto è un metodo preferibile alla cottura nel forno a vapore.
Così otteniamo una pastorizzazione della carne che consente di conservarla in frigo per 4 settimane e oltre. Ricordiamoci di non superare i 60°C in modo da non disperdere l’umidità intrinseca.
Vediamo adesso la cottura sul fuoco, visto che quanto descritto finora è una specie di pre-condizionamento.
LA COTTURA SUL FUOCO
La cottura violenta su fiamma agevola la “reazione di Maillard”, cioè la cauterizzazione (brunitura) della superficie, ma provoca un accorciamento delle fibre che si traduce nella perdita di liquidi preziosi.
Prima di andare sulla griglia, la carne deve essere rigenerata, sempre sottovuoto, e riportata alla temperatura di cottura perché il tempo che passerà sulla griglia non basterà a scaldarla fino al cuore.
REAZIONE DI MAILLARD
E’ un cambiamento dei tessuti che crea nuove molecole, tremendamente gustose e non esistenti in natura. A questa reazione di natura chimico-fisica dobbiamo il classico sapore di arrostito. In pratica, il sapore aumenta con la degradazione termica del tessuto adiposo. Prendete l’odore delle salsicce grigliate: irresistibile.
La reazione di Maillard avviene solo se la temperatura e l’umidità hanno raggiungono certi valori, e può essere favorita dalla quantità di zuccheri presenti o dal PH della carne. Una cauterizzazione perfetta si ottiene rispettando questi parametri:
- 1. TEMPERATURA
- 2. UMIDITA’
- 3. QUANTITA’ DI ZUCCHERI
La Reazione di Maillard inizia alla temperatura di 130°C. Come abbiamo detto, coagula in fretta le proteine ma non è sufficiente a brunire la carne, cosa che avviene tra i 140°C e i 150°C.
Di fatto, è un’interazione tra aminoacidi della carne e un tipo di zuccheri detti “riducenti”. Per riducente intendiamo uno zucchero dalla particolare struttura molecolare che favorisce questo processo.
Lo zucchero da cucina non è uno zucchero riducente ma può diventarlo interagendo con un acido, per esempio il succo di limone. In questo modo si scinde in glucosio e fruttosio che sono entrambi zuccheri riducenti.
A patto di asciugare la carne prima di cuocerla, una marinatura con succo di limone leggermente dolcificato aiuta la reazione di Maillard, favorendo in modo esponenziale il processo di cauterizzazione superficiale. Un buon accorgimento consiste nell’aggiungere piccole dosi di glucosio alla carne.
Dolcifica meno e aiuta soprattutto a ridurre la formazione di agenti mutageni. Il calore elevato, specie nella cottura alla griglia, può generare la formazione di sostanze cancerogene tipo le amine eterocicliche. Più lungo è il tempo di cottura, maggiore è la produzione di queste sostanze soprattutto in presenza di composti carbonizzati.
In definitiva, usare uno zucchero “riducente” aiuta a sviluppare la crosticina aumentando il sapore e diminuendo il rischio, vero o presunto, delle sostanze nocive. Una bella conquista credo, non è così?
LA GRIGLIA
Nella cottura definitiva, la griglia ha un ruolo fondamentale a cominciare dal materiale. Avete presente le righe di cauterizzazione che si ottengono cuocendo alla griglia? Sembra scontato ottenerle ma non è così. Una griglia di acciaio, per dire, non consente la formazione delle cosiddette grill marks che si ottengono invece con la ghisa.
Immagino che qualcuno mi stia dando del cialtrone pensando alle righe nette ottenute con una semplice piastra di alluminio/teflon. Un momento, per prima cosa una piastra non è una griglia, secondo, parliamo di dispositivi di cottura outdoor e possibilmente a carbone. Provate a mettere una piastra in alluminio/teflon sotto a un braciere scaldato a 500°C!
I produttori affidabili costruiscono le griglie solo in ghisa e acciaio. Ovviamente la tecnologia è arrivata anche qui, esistono griglie smaltate, porcellanate, vetrificate, nichelate… bla bla bla.
Dopo averne provate a decine, sono arrivato alla conclusione che si ottengono scultoree righe di cauterizzazione solo con le griglie in ghisa pura. Al massimo, si possono utilizzare griglie dai rivestimenti particolari, ma dobbiamo premere forte la bistecca e comunque il risultato non è dei migliori: le righe sono sbavate, come si vede dalla comparazione delle foto.
Può sembrare un dettaglio ma non è così. Come detto, la reazione di Maillard migliora l’aroma, se non riusciamo a ottenerla in tutta la superficie della carne perché la nostra piastra non è perfettamente liscia, dobbiamo accertarci che avvenga almeno nei punti di contatto tra griglia e carne.
A questo punto, uno potrebbe pensare che sia meglio usare la piastra invece della griglia, ma dobbiamo ricordare che per l’aroma sono importanti anche i fumi provocati dai liquidi in caduta sulle braci, che risalendo, investono la carne dandole il tipico profumo. Cosa che una piastra non permette.
Anzi, trattenendo i grassi e superando il punto di fumo, la piastra provocherebbe la degenerazione dei lipidi e una specie di frittura della carne nei suoi grassi. Magari anche buona ma di certo non salutare.
AFFUMICATURA
Last but not least, l’affumicatura breve incide sull’aroma della carne in maniera determinante. Dimenticate erbette, bacche, paglie e prendete per buono che l’affumicatura va fatta, tranne rarissimi casi, con legni aromatici non trattati che devono bruciare in combustione incompleta.
Se vogliamo ottenere una combustione senza fiamma, detta smoldering, in un grill ad elevata ventilazione, dobbiamo bagnare con acqua o altri liquidi aromatizzanti i trucioli per l’affumicatura.
Quando i trucioli sono impregnati, lasciamo gocciolare l’eccesso di liquido e li gettiamo direttamente sulle braci, possibilmente non sotto la carne per consentire al fumo di ossigenarsi prima di investirla. Quando il fumo aromatico compare è il momento della griglia.
GRADO DI COTTURA
C’è poco da dire, la cottura ideale si ottiene con una superficie croccante e ben cauterizzata e l’interno semi-crudo e succoso. L’ideale temperatura interna è di 57°C, e può essere controllata attraverso un termometro a sonda.
RIPOSO POST COTTURA
Dopo la cottura la carne DEVE riposare. Anche qui, i falsi miti si sprecano. Parli con gli chef blasonati e ti dicono che il riposo della carne serve a ridistribuire i succhi.
Non è così, il riposo è importante per la viscosità dei succhi. I liquidi interni sono una combinazione di grassi, acqua e collagene solubilizzato. Il riposo permette alla temperatura di abbassarsi quel tanto che basta e ai succhi di iniziare a solidificarsi.
Un grasso o il collagene semiliquido sono più viscosi pertanto l’attrito con le fibre è maggiore. In questo modo, anche se non impedita, la fuoriuscita di liquidi dovuta al taglio della carne è limitata.
SERVIZIO
Sarebbe dispersivo descrivere il tipo di servizio corretto in base alla bistecca che abbiamo preparato. Se la carne è tenace (una flank steak per esempio) è consigliabile ricavare delle strisce tagliate in modo perpendicolare alle fibre. Le fibre di una carne cotta “poco” rimangono coese.
Più accorciamo il filamento, cioè, più pratichiamo un taglio sottile, minore sarà lo sforzo che faremo per separare gli elementi dal tessuto connettivo al momento di mordere la carne (carpaccio?). Più è lungo il filamento maggiore sarà la resistenza. Rompere una fune tirandola è un’impresa titanica ma tagliarla a piccoli pezzi trasversali riduce lo sforzo.
Va bene servire la bistecca intera, se è tenera, ma nel caso di dimensioni importanti dobbiamo usare un piatto di servizio che la mantenga tiepida. Una pietra ollare preriscaldata a 65 gradi è la soluzione ideale.
La salinità (non sapidità) può essere aiutata da granelli di sale grosso o “Maldon”, di quelli che scricchiolando sotto i denti.
E siamo arrivati alla fine del nostro viaggio alla ricerca della bistecca perfetta. Mancano argomenti importantissimi tipo i condimenti che però, credo, ci avrebbero portato fuori tema. Per rientrarci, e per ringraziarvi dell’interesse che avete mostrato, mi sono concesso una “Ribeye” di Black Angus.
La offro anche a voi, idealmente, s’intende.
Tutti i post della serie “Il vangelo della bistecca perfetta”. Prima parte: l’iniziazione. Seconda parte: la full immersion. Terza parte. Il dubbio tra filetto e costata.