L’ultima volta, ho provato a convincere gli scettici condividendo la procedura per l’insalata perfetta. Siccome meritava un post a parte, ho lasciato fuori il condimento, quello che oggi dà un certo tono definire dressing.
Noi italiani usiamo olio extravergine d’oliva, aceto o succo di limone, sale e pepe. Si può fare di meglio?
Vediamo, però non posso non notare che gli americani utilizzano diversi condimenti sia liquidi che cremosi. Mi sembra di sentirvi: americani… cremine, ma stiamo scherzando?
Effettivamente gli americani ne fanno di tutti i colori, dal rosso delle salsine al lampone al giallo del peperone arrosto. E le basi: maionese, yogurt, cetrioli e via folleggiando. Esiste perfino il famigerato “Italian dressing” del quale è meglio continuare a ignorare l’esistenza.
Una volta, in una Steak House di Memphis, ho trovato anche la «Carta dei Dressing», un fantasioso elenco di salse per accompagnare le insalate. Anche troppo fantasioso, leggere le etichette di queste salse e pensare alla Nasa è stato automatico: Antiossidanti, Stabilizzanti, Tensioattivi, Conservanti, Addensanti, Esaltatori di sapidità.
Alcuni marchi offrono prodotti dignitosi ma le salse economiche sono davvero pozioni da druido.
Meglio restare ognuno nel suo, cosa dite? Gli americani si tengano i papponi e noi l’oliera. Ma sapete che non mi arrendo facilmente, per cui mi sono chiesto:
C’è qualcosa che non va nel nostro dressing? E nei loro? Si può fare di meglio? E se sì, come? Mi sono messo a cercare le risposte, ed è venuto fuori che:
1. Il metodo italiano di condire l’insalata è completamente sbagliato.
2. L’uso del dressing che fanno gli americani è incontrollato, però l’idea c’è.
3. Chiamatelo cerchiobottismo, ma il condimento ideale è un cocktail delle due scuole di pensiero.
Ovviamente bisogna dimostrare i tre punti ma per fortuna è già stato fatto, io mi limito a riportare.
Guardate la foto.
Le foglie d’insalata bagnate dall’olio diventano traslucide, non succede la stessa cosa con i liquidi non oleosi, come l’acqua, l’aceto o il succo di limone. Questo perché le foglie sono rivestite da un sottile strato di materiale ceroso, una sorta di impermeabile incorporato grazie al quale le foglie si proteggono dalle intemperie. L’acqua che raggiunge le foglie scivola sullo strato ceroso e si aggrega in piccole goccioline. L’olio, invece, che diversamente da quel che si pensa è meno denso dell’acqua, penetra all’interno rovinando l’aspetto delle foglie. Provate!
Molti usano la vinaigrette mischiando una parte di olio e due (o tre) di aceto. Ma olio e aceto non sono amalgamabili tra loro. Se li mettiamo in un contenitore e mescoliamo energicamente, prima le due masse si uniscono, quindi si disperdono in gocce piccolissime fino a quando non si separano di nuovo.
Guardate l’aspetto della vinaigrette sopra la foglia d’insalata, l’olio si aggrappa tenacemente alla foglia mentre la povera goccia di aceto, sospesa sull’olio, cade al minimo movimento. In pratica, l’olio si ancora saldamente alla foglia invece l’acqua scivola sulla parte cerosa. Ecco perché l’aceto, che dovrebbe star sotto, è invece in superficie, sopra l’olio.
Per capire come mai l’aceto cade è stato fatto un altro esperimento: si è messa dell’insalata dentro un imbuto appoggiato sui bordi un bicchiere. L’esperimento consiste nel capire se una vinaigrette stabilizzata, cioè, cui si è aggiunto un ingrediente in grado da fare da collante, come la senape ad esempio, offre una maggiore capacità di adesione rispetto a una preparata in modo tradizionale. Stessa quantità d’insalata e vinaigrette ma una è stabilizzata mentre l’altra no.
La Vinaigrette stabilizzata rimane saldamente aggrappata all’insalata mentre l’altra dapprima si separa, la parte oleosa resta attaccata alle foglie mentre quella acquosa (aceto) cade sul fondo del bicchiere. Come dire che la dose di aceto che usiamo per condire l’insalata finisce in fiondo al piatto entro pochi secondi. Insomma, un condimento sbilanciato da tutti i punti di vista che dovrebbe convincerci a mandare in pensione l’oliera: il metodo italiano non funziona.
L’uso del dressing che fanno gli americani è incontrollato, però l’idea c’è.
Cosa accomuna il condimento degli americani? Una filosofia assolutamente valida: unire grasso, acido, sale, spezie, aromi. Ma spesso perdono il controllo della situazione, le insalate finiscono annegate da fiumi di condimento dominato dalla maionese. Buone saranno anche buone, ma si tratta di sapori grossolani, e tutta quella maionese non è sicuramente salutare.
Senza contare che per tenere uniti grasso, acido, sale, spezie, e aromi conservando a lungo il buon sapore è obbligatorio ricorrere all’uso massiccio di additivi alimentari. Ora, datemi del talebano ma sono uno che ha l’ossessione delle etichette, prima di comprare qualcosa sento il bisogno morboso di leggerle. Il problema di molte salse americane è che la lista degli ingredienti riconoscibili dura una sola riga mentre quella degli additivi quattro. Ecco perché è il caso di prepare da soli i nostri dressing scegliendo con cura gli ingredienti. Abbiamo visto che senza l’uso di additivi l’emulsione è comunque destinata a separarsi, ma a noi interessa che resti unita il tempo di mangiare l’insalata e per far questo bastano gli stabilizzanti naturali.
Il condimento ideale è un cocktail delle due scuole di pensiero.
Realizzare un’emulsione stabilizzata invece di condire con olio e aceto separatamente. Ecco come assicurarsi una maggiore presa del condimento che riusciremo anche a distribuire in modo uniforme. Ovviamente, per creare la miscela adatta a ogni tipo d’insalata, oltre a olio e aceto possiamo includere numerosi altri ingredienti. Adesso proviamo a capire quali sono gli elementi essenziali di un dressing. Per prima cosa chiariamo il concetto di emulsione.
Sopra abbiamo parlato di “emulsione” e “stabilizzata”. Secondo l’enciclopedia Treccani il significato di emulsione è questo:
In chimica fisica, è una miscela costituita dalla dispersione di goccioline di un liquido (fase dispersa o discontinua) in un altro (fase disperdente o continua) nel quale sono insolubili o quasi. Sono emulsioni molti alimenti (latte, burro, maionese), cosmetici (creme, lozioni), medicamenti, detersivi, insetticidi, lubrificanti, vernici.
Fare un’emulsione significa quindi disperdere delle gocce di un liquido in un altro non amalgamabile con il primo. Per ottenere queste gocce è necessario rompere la struttura delle molecole e riorganizzarla, in pratica dobbiamo mescolare le due sostanze, più energia mettiamo più piccole saranno le gocce. Così facendo otteniamo una soluzione composta da piccole gocce d’acqua e olio, affiancate in modo casuale.
Per il principio della coalescenza (due particelle che si uniscono per formarne una più grande) le goccioline tenderanno ad aggregarsi nuovamente; in altre parole si spostano e si uniscono per creare una goccia più grande. Se invece volessimo mantenere legate queste gocce, dovremmo utilizzare una sorta di colla che nel caso delle emulsioni si chiama “stabilizzante” o “surfattante”. Un agente che ha la particolarità di abbassare la tensione superficiale di un liquido. La tensione superficiale, per farla semplice, è la forza che permette alle zanzare di camminare sul pelo dell’acqua. A chi volesse saperne di più sulle emulsioni, consiglio di leggere il post di Dario Bressanini. Detto questo, immaginate gli infiniti condimenti che possiamo realizzare?
Bene, adesso proviamo a stabilire con ragionevole certezza, quali elementi deve contenere il dressing del gastrofanatico.
1. Untuosità. Un grasso, molto spesso un (grande) olio.
2. Acidità. Aceti, succo di limone o lime ma anche succhi di frutta di spiccata acidita.
3. Sapidità. Sale ma non solo: salsa di soia, colatura di alici, Worcestershire
4. Dolcezza. Zuccheri, meglio se aromatici: miele, sciroppo d’acero, zucchero grezzo.
5. Aromaticità. Erbe, spezie, ortaggi. Infinite possibilità.
6. UMAMI. Il volume del sapore.
7. Stabilizzante. La famosa colla. Miele, lecitina di soia e senape sono stabilizzanti naturali ma ce ne sono molti altri. La stessa maionese è uno stabilizzante.
Di olio è pieno il mondo, di grandi oli meno, non risparmiamo sull’olio, usiamo il migliore che possiamo permetterci. Senza dimenticare gli oli di semi. Ogni volta che lo faccio notare mi rispondono che non valgono niente. La risposta è: dipende dai semi!
Mattia Pariani, imprenditore geniale e visionario, produce oli di una purezza indicibile: Olio di mandorla romana di Noto, Olio di Pinoli di S. Rossore, Olio di Pistacchio di Bronte e per finire un olio splendido, cioè l’olio di Nocciola Piemonte I.G.P.
Si usano rigorosamente a crudo, e pur non rappresentando un’alternativa all’olio extravergine, sono veramente piacevoli, una specie di elisir. Olio a parte, possiamo ricorrere a un altro ingrediente squisito anche se spesso sottovalutato: lo yogurt. Se intero apporta una maggiore quantità di grasso ma anche una splendida acidità.
E ora l’aceto. Di vino bianco, di vino rosso, balsamico, tradizionale, di mele, di miele, di lamponi, di mirtilli, di more, di umeboshi, di riso, di ribes nero, di mais (no OGM) e tutti quelli che dimentico. L’acido è la base comune ma le sfumature di sapore sono diverse e fanno la differenza. L’aceto di lamponi e l’aceto di vino rosso non hanno lo stesso sapore. Punto. Altro ingrediente bistrattato: la salsa Tabasco. Qualche goccia e il dressing può trasformarsi in una bomba di sapore
Lo zucchero mitiga l’azione pungente dell’acido e del sale. Possiamo usarlo semolato ma nessuno ci impedisce di provare un buon miele o lo zucchero di palma/acero. Sono tutte note aromatiche distintive.
Aromaticità non vuol dire soltanto origano o prezzemolo, si può fare di più. Pensiamo alle foglie di shiso, al lemon grass, alla vaniglia, al cardamomo, al macis, allo zenzero, al wasabi. A elencarli tutti non finiamo più. Portiamo carattere, nuovi sapori, nuove inclusioni. La sperimentazione in cucina fa parte del gioco ed è anche divertente, scoprire abbinamenti che funzionano è appagante, perché non farlo?
Molti gastrortodossi inorridiscono davanti al termine UMAMI, non si capisce perché. Esistono molti elementi umami liquidi, alcuni li abbiamo già indicati sopra, la salsa di soia, la salsa Worcestershire, anche Salsa di pesce fermentato (per gastroindulgenti) o la splendida colatura di alici di Cetara. Si possono utilizzare alghe, funghi e quanto già sappiamo. Un boost di potenza gustativa, ci piace.
Se volete un piccolo segreto, rinforzate il condimento con uno degli ingredienti principali dell’insalata. Se ne preparate una con gli zucchini saltati, di sicuro avrete usato solo la parte verde esterna, più croccante e saporita. Recuperate l’interno, stufatelo in padella con del cipollotto e un goccio di vino biano. Quando è stracotto aggiungetelo al dressing, sarà una valida spalla per l’ingrediente principe del piatto. Fatelo con i peperoni, con la zucca, con i cavoli, con qualsiasi cosa.
Ultimo ma non ultimo è il dispositivo che permetterà la creazione del dressing perfetto: il blender o mixer.
Oltre a frullare e sminuzzare perfettamente, l’alta velocità dello strumento regala all’emulsione una struttura vellutata, impossibile da ottenere sbattendo a mano. In aggiunta, le particelle generate dalla turbolenza della rotazione sono molto piccole, in questo modo lo stabilizzante è più efficace e l’emulsione rimane stabile per giorni.
Ricapitolando, il metodo italiano di condire l’insalata è completamente sbagliato, meglio usare un dressing sullo stile degli americani. Che però ne fanno un uso eccessivo, di certo non salutare, per tacere dei sapori dozzinali. Allora adottiamo un dressing personalizzato, facciamolo al momento con ingredienti freschi tenendo d’occhio il gusto, in fondo siamo italiani. Basandoci sulle percezioni sensoriali stabiliamo quali ingredienti rendono armonica l’insalata, non limitiamoci ai soliti. Usiamo il mixer per emulsionare e ottenere un risultato perfetto.
Siamo arrivati alla fine. Mi sono chiesto se l’insalata fosse davvero il piatto triste che crediamo e 4 episodi dopo è venuto fuori che no, anzi, può trasformarsi in una leccornia da gourmet, basta un po’ di attenzione, e ha il non trascurabile vantaggio di essere dietetica, o comunque salutare. E voi che mi avete seguito fin qui, pensate ancora che l’insalata sia un piatto triste?
[Crediti | Link: Dissapore, La Scienza in cucina, Pariani, Wikipedia, Corriere.it. Gli altri episodi della serie Fenomenologia dell’insalata: Era vegetale, Perché la verdura fa bene, Cosa e quanta insalata mangiare nella dieta mediterranea, Guida pratica all’insalata gourmet]