Un centinaio di anni di storia legittima una tradizione come tale? Più precisamente, la cucina italoamericana può rivendicare una sua identità? E, soprattutto, essere sdoganata anche qui, nella madre patria?
So che con questo post sto per scatenare i più bassi istinti di quanti, fra voi, amano scagliarsi contro qualunque piatto si spacci per italiano senza essere nato fra le Alpi e Lampedusa.
Che poi è curioso, perché magari siete gli stessi che vanno al ristorante cinese e ordinano involtini primavera, mentre i più cool non disdegnano le specialità nippo-brasiliane.
Per dire che tutte le culture gastronomiche, portate in un altro paese, mettono in atto una forma di adattamento ai gusti e agli ingredienti locali. Creando qualcosa di nuovo e, non di rado, di buono.
Perché il risultato non è necessariamente deprecabile e, personalmente, resto dell’idea che un ottimo piatto di fettuccini Alfredo cucinato in una trattoria newyorkese chic abbia molta più dignità di una pessima tagliatella al ragù scodellata in un’osteria bolognese di quart’ordine.
La chiave è l’esecuzione. La sfida: portare i piatti a livelli di eccellenza che mai si sarebbero sognati gli emigranti che, nei primi anni del secolo scorso, solcavano l’Oceano in cerca di fortuna. Rendendoli appetibili anche ai palati (italiani) più schizzinosi.
Il gioco dell’estate è stato lanciato da Al Cortile, il posto (bellissimo, fatemelo dire vah) milanese legato alla scuola di cucina professionale Food Genius Academy, allestito per l’occasione da Daniela Sagliaschi.
La serata di riapertura della nuova stagione è stata dedicata alla cucina di Little Italy, rivisitata da chef italianissimi e allestita dagli allievi della scuola, brigata di ragazzi entusiasti e per nulla perplessi di mescolare basi nostrane e ricette yankee.
Dimenticate Lilli e il Vagabondo, l’aglio affettato in cella con la lametta da barba, i pranzi e le cene nelle centinaia di pellicole ambientate nel mondo dei “bravi ragazzi”.
Pensate, piuttosto, a spaghetti freddi (di marchesiana memoria, direi), perfettamente al dente, su un gazpacho di pomodoro fresco piccantino, con polpettine di vitello impanate e spuma di ricotta salata: spaghetti&meatballs, insomma. Autore, Felice Lo Basso (chef di Duomo 21 del Town House Duomo, in piazza Duomo).
Oppure, a un petto di pollo cotto a bassa temperatura con salsa di pomodoro concentrato, polvere di capperi, fonduta di parmigiano e panko alle erbe: chicken parmigiana secondo Eugenio Roncoroni. (chef proprietario di Al Mercato, in via Sant’Eufemia, 16).
Provocazioni, certo (per la cronaca, resteranno in carta nei prossimi mesi). Solo ispirate agli originali “broccolini”, quelli che a noi turisti nella Grande Mela sono sempre sembrati aberrazioni.
Ma sapete che ogni tanto mi piace andare controcorrente e allora vi domando: cosa c’è di male a mettere le polpette nella pasta quando in Puglia si fanno le orecchiette con le braciole di cavallo?
E ancora: è davvero inimmaginabile guarnire la pizza con peperoni e salame (strolghino, per la pepperoni pizza del Cortile firmata Giovanni Mineo e Panificio Longoni)? Sul serio disdegnereste qui e ora un boccone di garlic bread fragrante di burro e aglio, tanto aglio profumato?
Forse, in questo mondo globale, sarebbe bene abbattere tutti paletti. Iniziare da quelli gastronomici potrebbe già essere una buona idea. Oppure no?
Ditemi: credete davvero che lo zio d’America avrebbe dovuto evitare di arricchirsi aprendo catene di ristoranti e limitarsi a mafia&mandolino?
Io, come italiana, preferisco essere associata a mozzarella e pastasciutta, piuttosto che a un’organizzazione criminale.
Gli stereotipi sono duri a morire. Quello che la cucina italomericana sia una mezza schifezza forse dovrebbe venire archiviato una volta per tutte.
Anche perché, fidatevi, ne sentirete ancora parlare.