Orsù, provateci! Chiedete a un appassionato di liquori cos’è il rosolio.
Con ogni probabilità sgranerà gli occhi. Poi, magari, riprendendosi, inizierà a raccontarvi di quella-volta-che-suo-nonno.
Se siete stati fortunati, se avete di fronte la persona giusta, armatevi di bignamino e preparatevi a scoprire cosa si beveva prima dell’irruente entrata in scena dell’Aperol, a braccetto col suo compare Negroni.
Rosolio, uhm, cos’è il rosolio?
Non vi azzardate a dire che è “un liquore alla rosa”: vi facciamo una tirata d’orecchi.
Sebbene tra gli ingredienti compaiano ai petali di rosa, il nome non c’entra con il fiore. “Rosolio” deriva dal tardo latino “ros solis”, rugiada del sole, probabilmente a causa della sfumatura che può assumere il liquore.
Si ottiene attraverso l’infusione in alcol di spezie varie oppure frutta, come scorzette d’arancia, bergamotto, gelso rosso, visciole, fico d’india e fragoline.
All’infusione, dopo un certo numero di giorni (variabile da ricetta a ricetta) viene aggiunto uno sciroppo ottenuto bollendo insieme acqua e zucchero nella quantità desiderata.
La modesta gradazione alcolica (25% – 35%) permetteva a tutti, o quasi tutti, di poterlo bere e anche di produrlo in casa. Era il liquore del “buon augurio”, un caffè dei tempi che furono. Le donne erano grandi bevitrici di rosolio: molto dolce e digestivo.
A questo punto, magari, il vostro interlocutore potrebbe parlarvi di hangover da rosolio, di quella voltà che toccò a sua nonna. O magari no, ma potete sempre immaginarlo.
Un po’ di storia
Il rosolio non ha origini antichissime, sebbene sia entrato in quasi ogni casa italiana, e per giunta di qualunque estrazione sociale.
La storia del rosolio si lega irrimediabilmente a quella dell’ampia diffusione dello zucchero raffinato in Europa nel Settecento, con le successive tecniche di estrazione e cristallizzazione dalla barbabietola da zucchero. Prima, lo zucchero era poco diffuso nel Vecchio Continente, e quello che c’era — commercializzato dagli Arabi — era venduto letteralmente a peso d’oro.
Diffusosi poi lo zucchero, diffusosi poi l’alcol, non restava che inventare liquori. Ma chi aveva le conoscenze botaniche necessarie, chi aveva la pazienza, il tempo, i luoghi adatti — freschi e asciutti — per produrlo?
Esatto, proprio loro: i monasteri. Su questo, nessuno sembra avere dubbi: il rosolio sembra infatti essere stato inventato in un monastero. Precisamente in un monastero femminile. Ma dove, esattamente?
Mezza Italia rivendica la paternità del liquore italiano. Iniziamo dalla Sicilia: Si dice che grazie al rosolio alcune monache siciliane abbiano salvato molte persone da morte certa (di colera). In provincia di Messina, a Ficarra, la consuetudine non è venuta meno: anche oggi viene preparato imbottigliando l’alcol arricchito con scorzette di frutta e spezie, insieme a uno sciroppo di acqua e zucchero. Qui senza indecisioni: per una settimana precisa.
In Lucania e parte della Puglia esistono due tipi di rosoli: uno con frutti speciali (gelso, visciole, fichi d’India) da servire sempre ghiacciato; l’altro con salvia, timo, basilico e menta malva da servire anche molto caldo, per sprigionarne gli oli essenziali.
Anche la Campania rivendica con insistenza l’invenzione del rosolio, con tanto di nome del convento dove tutto sarebbe iniziato: Convento di San Francesco in Tramonti, piena Costiera Amalfitana, allora gestito dalle suore clarisse.
Qui veniva infuso il rosolio più famoso della zona, il “Concerto”. Il nome è dovuto all’insieme delle 15 erbe e spezie lasciate a macerare per 40 giorni nell’alcol.
Sicuramente tra le erbe utilizzate ci sono finocchietto, liquirizia, chiodi di garofano e cannella, ma la ricetta completa è custodita, nel più impenetrabile dei segreti, dalle poche famiglie o artigiani che ancora lo producono. Dopo la macerazione di alcol ed erbe, si aggiunge uno sciroppo fatto di acqua, zucchero, orzo tostato, caffè ed eventuali bucce di agrumi.
Il fragolino, invece, è un rosolio molto diffuso in tutto il territorio campano. Si ottiene lasciando macerare, appunto, fragoline in alcol per circa 10 giorni, dopodiché si aggiunge lo sciroppo di acqua e alcol.
Al di qua dei Lattari, sui brulli monti Picentini, ma anche in Cilento, abbiamo invece il nanassino, bevanda assai glamour malgrado il nome.
Viene prodotto grazie alle sterminate distese di fichi d’India, frutti battuti dal sole, spinosi e dolcissimi. Per ogni litro di alcol s’impiegano dieci fichi d’India privati delle spine, segue una macerazione di 10 giorni in uno sciroppo di acqua e zucchero.
Va da sé che già per il fatto di prepararlo si era assolti da tutti i peccati, viste le spine da togliere.
Ma dopo tutto questo excursus sul Sud, c’è da dire che l’unica regione in grado di ottenere il riconoscimento per la tutela del rosolio è stata il Piemonte.
Questo grazie al re sabaudo Vittorio Amedeo III, amante del rosolio “alla piemontese” preparato con un miscela di erbe tutto suo: camomilla, genziana, lavanda, rose gialle e melissa.
Poi, però, il re ha deciso che la politica di stato poteva andare a pari passo con gli alcolici, e ha stretto diversi accordi con i possidenti piemontesi e il Vermuth –il vino bianco e liquoroso– è diventato liquore di Stato.
Ciao ciao, rosolio.
Ma è un’uscita di scena solo apparente, perché fino agli anni Sessanta è sempre stato presente nelle case degli italiani.
Il rosolio nel 2017
Non avrà l’attuale popolarità del gin ma anche il rosolio ha la sua piccola rappresentanza, soprattutto all’estero.
E’ il caso di Italicus, rosolio di Bergamotto: viene prodotto da Giuseppe Gallo, originario della Costiera Amalfitana e trapiantato a Londra che, con la ricetta tipica impiegata dagli anziani della sua famiglia.
Al sito americano Munchies, interessato alla rinascita del rosolio italiano, ha raccontato che sua nonna produce ancora un rosolio a base di gelsi bianchi, raccolti nel suo giardino.
Gallo, per riportare il liquore ai fasti di un tempo, si è basato sulla ricetta originale del Rosolio di Torino, che a quanto pare era proprio quello bevuto da Vittorio Amedeo III.
Va da sé che ha dovuto personalizzarla per adattarla al gusto dei bevitori contemporanei, perché lo sappiamo, i gusti cambiano, e dal Settecento ne è passato di rosolio sotto i ponti.
La nota principale nel rosolio Italicus è proprio il bergamotto dalla Costiera Amalfitana.
Per non sbiadirne l’aroma viene utilizzata la tecnica di estrazione anche detta “sfumatora”, che consiste nell’essiccazione al sole della buccia di bergamotto per poi, previa spremitura, ricavarne gli oli essenziali da utilizzare nel liquore.
Al bergamotto si aggiunge quindi il succo di un secondo agrume, stavolta calabrese. E’ il cedro, che grazie alla scorza spessa e dura rilascia a sua volta molti oli essenziali.
Tutti gli ingredienti utilizzati per il rosolio Italicus sono italiani tranne lo zucchero, oggi di canna e non raffinato.
[Crediti | Link e Foto: Eater]